Come far nascere una Silicon Valley in Italia? Idea. E una storia personale

L'interaction design e la storia dell'apertura di un centro di ricerca italiano

20 Maggio 2022

Il Foglio

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Politiche pubbliche

Il successo industriale è prevedibile? Che cosa ha fatto sì che a Silicon Valley si sviluppasse il primo centro mondiale di innovazione tecnologica?

Perché alcuni prodotti hanno successo e altri no? Esiste qualcosa che renda meno aleatorio individuare le scelte che decretano il successo? E’ l’interaction design, un campo interdisciplinare di ricerca per comprendere come la tecnologia interagisce con i processi cognitivi e con le preferenze individuali. L’idea di creare in Italia un centro di ricerca e a realizzarlo è stata di Barbara Ghella, mancata pochi giorni fa.

Nel 1995, Roberto Colaninno, nominato ad di Olivetti, annuncia di voler uscire dall’informatica per trasformare l’azienda in una holding di telecomunicazioni; nel 1998 vende Omnitel e Infostrada a Mannesmann per oltre sette miliardi di euro e il 20 febbraio 1999 lancia su Telecom l’opa da 117 mila miliardi di lire. Colui che fino a pochi anni prima guidava una fabbrichetta di filtri auto a Mantova era diventato la persona a cui si fa un credito tale da consentirgli di lanciare la più grande opa mai vista in Italia. In segno di riconoscenza verso la città dove questo era stato possibile, Colaninno vuole creare quella che chiamava “l’università di Ivrea”.

Barbara Ghella, mia moglie, per risolvere il problema di un tour operator che voleva integrare il primo sistema di prenotazioni aeree internazionali con le sue procedure interne, otto anni prima era stata a Stanford e San Francisco; tornata in Italia, aveva realizzato le interfacce delle postazioni di lavoro della Toro Assicurazioni, della centrale ricezione chiamate del 113, dell’agenda e delle cartelle cliniche per gli ambulatori di psichiatria di un’asl. Fu lei a capire che quello di cui Colaninno andava in cerca era un centro di Interaction Design.

Con Roberto avevamo lavorato insieme per anni: quando glielo proposi, ebbe fiducia e accettò. A dicembre parto con Barbara per San Francisco; il 16 giugno il cda di Telecom delibera di fondare Interaction Design Ivrea dotandola di 39 milioni di euro per il periodo 2000-2005; entro giugno 2000 avevamo portato a bordo Gillian Crampton Smith, direttrice e persona chiave dell’iniziativa, fatto e approvato il programma didattico, scritto lo statuto e il business plan per cinque anni. A dicembre è inaugurato l’edificio, a gennaio 2001 inizia l’attività di ricerca, a settembre arrivano i primi trenta studenti dall’estero. Ma un’indagine della procura (finita al solito in niente) mette in agitazione i soci bresciani di Colaninno, che nel luglio 2001 deve accettare la complessa proposta con cui Pirelli prende il controllo di Olivetti-Telecom. Pirelli possedeva già Domus Academy, una prestigiosa scuola di design, e ai consulenti di Value Partners parve ovvio apportarvi Interaction Design: la vecchia strategia dell’economa di scala aveva ancora avuto la meglio. Questo significava la distruzione di Interaction Ivrea, e mi dimisi: a dicembre 2005 le ultime persone uscirono dall’Interaction Institute di Ivrea.

I centoventi studenti che avevano completato il master biennale oggi sono tutti in posizioni di prestigio in Big Tech o in istituzioni accademiche. A Ivrea sono nate le start up Experientia, Fluidtime, To Do e Arduino che con le sue schede open source ha reso possibile la rapida prototipazione a centinaia di migliaia di laboratori e start up. “Connected Communities” aveva lo stesso obbiettivo di Facebook di cui, mese più mese meno, è coetanea. “Wearable computers” era un’area di studio che ci sembrava promettente. Forse se avessi bussato alla porta delle grandi fondazioni torinesi, la storia avrebbe avuto un finale diverso. Ma la realtà è che in Italia mancava un’industria di Venture Capital neppur lontanamente simile a quella che aveva decretato il successo di Silicon Valley: negli USA nel 2021 la somma dei capitali investiti in aziende sostenute da VC raggiunse i 330 miliardi di dollari.

Tutto il contrario delle storiche contrapposizioni tra impresa che fa e stato che autorizza, tra investimento finanziario e sostegno a un’impresa innovativa. Improbabile che un sistema di VC si sviluppasse in un paese dove prevalente è l’idea che nell’economia la finanza sia cattiva e l’industria buona, perché nella prima si specula e solo nella seconda si produce. C’era, operante, Interaction Design Institute di Ivrea: mancò chi capisse che quella era la “fabbrica delle app” del nuovo mondo digitale.

da Il Foglio, 20 maggio 2022

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