Il Covid ha fatto tornare lo Stato. Nel bene e nel male. Anche in economia: era uscito dai capitali e dalla gestione delle imprese da decenni, ma era rimasto – e continua a proporsi come decisivo – con un eccesso di regole più inutili che necessarie. La pandemia e la scorciatoia dello Stato erogatore di provvidenze e bonus hanno creato una forma di anomala dipendenza. E ora che la fase sta cambiando è il momento di evitare la deriva del “Sussidistan” e di dare forma alla suggestione dello «Stato che non disturba chi vuole fare» cara a Giorgia Meloni.
Alberto Mingardi e Maurizio Sacconi nel loro Stato essenziale, società vitale fanno un’acuta analisi del percorso italiano che ha visto altalenante il rapporto tra Stato e società civile. Dal benign neglect degasperiano che ha consentito il boom economico e ha cambiato il Paese, al ritorno statalista degli anni 70, dal vitalismo sociale di Bettino Craxi alla politica contemporanea, ritmata dal metronomo delle emergenze in continua successione.
Mingardi e Sacconi vogliono spezzare lo schema, il riflesso pavloviano che porta lo Stato a gestire tutto, gonfiando l’ipertrofia burocratica degli apparati, aumentando dismisura le spese in deficit. I due autori propongono una discontinuità radicale che porta il centro dell’azione sulla forza vitale della società: solo con il metodo della sussidiarietà si può cambiare davvero l’orientamento profondo del Paese. Dal lavoro alla formazione, dall’energia al Pnrr da rivedere, dal nuovo Fisco meno rapace ai capisaldi da ristrutturare di un welfare arrugginito, a cominciare dalla Sanità, gli argomenti sono molteplici. Torneranno stringenti i vincoli di bilancio, il Paese rischia di conoscere una stagione di flessione se non addirittura di recessione.
Per Mingardi e Sacconi è il momento di «scatenare la società, liberandola da molti dei lacci che la opprimono affinché trovi in se stessa la risposta alle proprie legittime paure». È ora di cambiare prospettiva. Che alla fine diventa rivoluzione culturale perché «una società libera e responsabile non può essere una società “dipendente” dai poteri pubblici». Soprattutto non può essere vittima del pregiudizio secondo cui ciò che è pubblico è morale e ciò che è privato è immorale.
Al recupero del dinamismo della società deve fare sponda uno Stato più leggero, attento a selezionare vera classe dirigente che non sia frutto di cooptazioni politiche o del vincolo feudale della fedeltà; pronto a farsi cornice all’interno della quale «iscrivere azioni precise chiare e ben ponderate dei propri effetti». E magari concentrato a stabilire quale debba essere la nuova definizione dei beni comuni (magari su scala europea).
Un corollario del pensiero dei due autori è particolarmente rilevante: l’innovazione e il progresso sociale di un Paese sono fenomeno collettivo che nasce dal basso ed è il contrario della suggestione leaderistica che ha pervaso i partiti oggi. Un feeling popolare e diffuso, forse alle prime battute, ma destinato a crescere.
Contano i ricercatori che fanno continui tentativi prima di arrivare al successo, gli imprenditori che sanno innovare nella catena di comando, gli operai che apportano know how per le migliorie nel processo produttivo, gli artigiani che inventano utensili. Ma anche – nel campo delle istituzioni – gli amministratori locali che conoscono la concreta difficoltà del risolvere i problemi, ma anche i corpi sociali spesso chiamati ad azioni di supplenza.
Il modello di Mingardi e Sacconi è semplice: «Lasciare che le comunità si autorganizzino per soddisfare le esigenze loro e il contesto che le circonda». Non più la società civile come rappresentazione passiva e soggiogata dalla regola burocratica, uniforme e livellatrice. Ma società libera e liberata. Come dire: il contrario del pensiero unico. Questo i due autori lo sanno bene: e con queste 110 pagine hanno deciso di accettare la sfida.
da Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 2023