26 Ottobre 2022
Il Secolo XIX
Carlo Stagnaro
Direttore Ricerche e Studi
Argomenti / Politiche pubbliche
La politica economica di Giorgia Meloni sarà in linea con quello che ci si aspetta in Europa da un normale governo di destra. Questa, almeno, è la sensazione che si trae dal discorso di insediamento. Sarebbe già una notizia in un Paese che da anni fatica a trovare un aggancio alla normalità europea. Il ragionamento si articola in tre passaggi.
Il primo riguarda la congiuntura e, quindi, la crisi energetica. La premier si pone in continuità con Mario Draghi, sia per quanto riguarda i negoziati europei, sia sulle politiche da adottare a livello nazionale. A tal proposito, “sarà necessario mantenere e rafforzare le misure nazionali a supporto di famiglie e imprese, sia sul versante delle bollette sia su quello del carburante”. Complessivamente, questi provvedimenti hanno assorbito nell’ultimo anno e mezzo circa 60 miliardi di euro. Riproporli nel 2023 – e, prima ancora, prorogarne l’efficacia nell’ultimo bimestre del 2022 – “drenerà gran parte delle risorse reperibili, e ci costringerà a rinviare altri provvedimenti che avremmo voluto avviare già nella prossima legge di bilancio”. In sostanza, Meloni mette le mani avanti e avverte che la realizzazione del programma elettorale è, in gran parte, rinviata a tempi migliori.
Questo ci porta al secondo pilastro: il fisco. Qui la presidente del Consiglio recupera le parole d’ordine tradizionali della coalizione da lei guidata, ma le proietta appunto nel prosieguo della legislatura anziché promettere fantomatiche rivoluzioni nei primi cento giorni. Sottolinea che “la ricchezza la creano le imprese con i loro lavoratori, non lo Stato tramite editto o decreto. E allora il nostro motto sarà non disturbare chi vuole fare“. Quindi, promette semplificazioni burocratiche, la riduzione della pressione fiscale con la riforma dell’Irpef (a partire dall’innalzamento della soglia del forfettario per gli autonomi a 100 mila euro), una “tregua fiscale” che lambisce il condono e un rinnovato sforzo nel contrasto all’evasione fiscale con annessa revisione dei meccanismi di funzionamento dell’Agenzia delle entrate. Come si vede, un colpo al cerchio e uno alla botte. Complessivamente, è comunque un messaggio che allude alla riduzione del ruolo dello Stato nell’economia. E che fa scopa con l’impegno a rispettare il Pnrr e realizzare gli investimenti da esso previsti (senza però citare le riforme necessarie a sbloccare i finanziamenti): “Il Pnrr non si deve intendere soltanto come un grande piano di spesa pubblica, ma come l’opportunità di compiere una vera svolta culturale. Archiviare finalmente la logica dei bonus… Rimuovere tutti gli ostacoli che frenano la crescita economica e che da troppo tempo ci siamo rassegnati a considerare mali endemici dell’Italia”.
Si arriva così al terzo punto: Meloni sottolinea l’importanza degli investimenti esteri. Ma poi dice che “contrasteremo logiche predatorie che mettano a rischio le produzioni strategiche nazionali”, “intendiamo tutelare le infrastrutture strategiche nazionali assicurando la proprietà pubblica delle reti” e “vogliamo finalmente introdurre una clausola di salvaguardia dell’interesse nazionale, anche sotto l’aspetto economico, per le concessioni di infrastrutture pubbliche, come autostrade e aeroporti”. A questo si aggiunge una visione molto interventista della politica industriale, con la pretesa di dettare, con decisioni amministrative, quali settori sono “strategici” e vanno quindi sostenuti. Per carità: si tratta di opinioni diffuse tanto a destra quanto a sinistra. Eppure, unendo i puntini, riemerge quella sagoma del sovranismo economico che la premier ha cercato di esorcizzare nel corso della campagna elettorale.
La questione, dunque, è essenzialmente come questi propositi verranno tradotti in pratica e in che modo potranno essere resi coerenti obiettivi che almeno in parte si contraddicono. Il discorso di Meloni propone una sorta di Bad Godesberg della destra italiana: mercato dove possibile, Stato dove necessario. In linea di principio è difficile dirsi contrari, ma in concreto tutto dipende da come, dove e con quale profondità si traccia la linea tra il “possibile” e il “necessario”. Per sapere la risposta, non è sufficiente leggere o interpretare l’intervento di ieri: è necessario osservare i prossimi passi del nuovo governo.
da Il Secolo XIX, 26 ottobre 2022