È ora di spegnere l'interruttore del populismo energetico

L'aumento dei prezzi ha portato a interventi statali caotici ed estemporanei, ma le toppe non bastano

10 Febbraio 2022

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Ambiente e Energia

Dal mese di giugno 2021 – quando i prezzi dell’energia hanno iniziato una corsa al rialzo di cui non si intravede la fine – il governo è intervenuto cinque volte per mitigare gli aumenti. Un sesto decreto è alle porte. E’ giunto il momento di cambiare passo: misure generalizzate e di breve termine devono cedere il passo ad altre che siano più incisive e selettive. Ciascuno dei provvedimenti adottati finora era concepito come se l’obiettivo fosse semplicemente di “passare la nottata”.

Questo atteggiamento era comprensibile all’inizio, quando l’emergenza ha colto quasi tutti di sorpresa. Ma ormai dovrebbe essere chiaro che i rincari hanno una componente strutturale, destinata a mantenere il livello dei prezzi elevato ancora a lungo, al di là delle oscillazioni stagionali. Nel periodo dal 1° luglio 2021 al 31 marzo 2022 sono state stanziate risorse enormi (oltre 11 miliardi) per attenuare gli aumenti a 360 gradi. In tal modo, gli sconti sono stati ininfluenti per alcuni, insufficienti per altri. Altre misure ancora, come l’obbligo di rateizzazione per le famiglie morose, rischiano di caricare oneri finanziari insostenibili sulle spalle dei venditori di energia, amplificando (anziché riducendo) la trasmissione dell’ondata inflattiva e i conseguenti rischi di fallimento.

Basta con la logica emergenziale
Per giunta, interventi poco profondi ma troppo estesi hanno alimentato un fiorire di proposte talvolta pericolose: si è sentito da più parti invocare forme di controllo dei prezzi (lo ha fatto Paolo Agnelli di Confimi Industria); si è ipotizzato un ritorno alla regolamentazione dei prezzi per i clienti “vulnerabili” (Filippo Bubbico di Acquirente unico); si è parlato di revisioni più o meno disordinate del mercato, assegnando a enti pubblici (come lo stesso Acquirente unico o il Gse) funzioni di acquisto e rivendita dell’energia all’ingrosso; si è infine introdotta nel decreto “Sostegni ter” una sorta di tassa sugli extraprofitti (che in realtà è un indifendibile limite ai ricavi) per le fonti rinnovabili, senza distinguere tra impianti incentivati e no. Tutto ciò si è mischiato più o meno disordinatamente a richieste in sé ragionevoli e utili (aumentare la produzione nazionale di gas, installare nuove fonti rinnovabili) che però si sono perse nella cacofonia generale.

Abbandonare la logica emergenziale significa anche individuare e distinguere nettamente obiettivi e vincoli dell’azione di politica economica. In particolare, qualunque intervento dovrebbe tenersi ben lontano da tre rischi: in primo luogo va preservato il segnale di prezzo (perché esso veicola un incentivo implicito all’efficienza energetica e alla diversificazione delle fonti e degli approvvigionamenti). Secondariamente, bisogna difendere il funzionamento del mercato, perché interventi sgangherati rischiano di mettere in crisi un meccanismo che in questi anni, nonostante tutto, ha funzionato egregiamente. Infine, non si possono manlevare le imprese dalla responsabilità di farsi carico dei loro rischi. Se si fossero coperte contro il pericolo di aumenti, o se lo facessero, la situazione sarebbe meno grave. Per questo vanno valorizzate iniziative come quella avanzata da Francesco Mutti di Centromarca, che consiste nell’organizzare le imprese in gruppi d’acquisto per spuntare prezzi migliori e contrastare la volatilità.

L’esempio tedesco
Ma, al di là delle azioni individuali, cosa può fare il governo? Anzitutto, rendere strutturali due interventi già adottati in via transitoria. Dal mese di luglio, il governo ha trasferito dalla tariffa elettrica alla fiscalità generale il sostegno alle fonti rinnovabili e altri oneri generali di sistema, che in tempi normali incidono all’incirca per il 20 per cento sulle bollette di famiglie e pmi e pesano complessivamente circa 12,5 miliardi di euro. Lo stesso hanno fatto altri paesi europei: la Germania, in particolare, ha dato natura strutturale a tale misura. Anche l’Italia dovrebbe seguire l’esempio tedesco, tra l’altro accogliendo una richiesta più volte reiterata dall’autorità per l’energia, l’antitrust e la Commissione europea. Questo sgraverebbe la bolletta da una sorta di zavorra che la appesantisce e che tra l’altro scoraggia l’elettrificazione dei consumi (uno degli assi strategici del nostro programma energia e clima). Per la stessa ragione, l’Italia dovrebbe rendere permanente l’utilizzo di una parte significativa del gettito delle aste della CO2 per finanziare tale operazione. Questo avrebbe un doppio dividendo: ridurre le bollette e sottrarre all’ingordigia della politica risorse che, nel passato, sono state spese in modo scriteriato.

Poi, occorre trattare diversamente le famiglie e le imprese; e all’interno di ciascun gruppo concentrarsi su quelli che hanno realmente bisogno di sostegno. Per quanto riguarda le famiglie è necessario proseguire sulla strada già parzialmente intrapresa: potenziare i bonus sociali e, magari, unificarli in un unico strumento (oggi le famiglie a basso reddito hanno diritto a sconti separati sulla bolletta della luce, del gas e dell’acqua e alcuni ne sono di fatto esclusi). Temporaneamente può essere sensato allargare la platea degli aventi diritto, alzando la soglia di 8.265 euro Isee. Ma se anche si andasse a intercettare la metà dei clienti domestici, si spenderebbe la metà di quanto impegnato finora per garantire lo sconto a tutti, paperoni inclusi.

Una transizione “giusta”
E per le aziende? Molte possono sostenere gli aumenti perché la spesa energetica incide relativamente poco sulla loro struttura dei costi, oppure possono riversarli a valle (come è purtroppo inevitabile). Ma per altri è diverso: le grandi imprese energivore rischiano di trovarsi in ginocchio, anche perché i concorrenti francesi e tedeschi godono di aiuti ad hoc mentre quelli americani pagano prezzi che sono una frazione dei nostri. Qui si incrociano tre questioni differenti, che bisogna cercare di rendere coerenti anziché dissonanti. Uno: sostenere le imprese in questa difficile congiuntura senza dar luogo a situazione di dipendenza dal sussidio, come troppe volte è accaduto nel passato. Due: adottare misure che siano compatibili con l’assetto di mercato, in cui i prezzi dell’energia sono liberi e si formano attraverso l’incrocio di domanda e offerta. Tre: non perdere di vista l’obiettivo di promuovere nel lungo termine l’aumento dell’offerta di energia (gas e rinnovabili) per rimuovere le cause del problema e centrare gli obiettivi climatici europei. O, per usare le parole del ministro Roberto Cingolani, rendere la transizione giusta non solo sul piano ambientale ma anche su quello economico e sociale.

Il sostegno statale
La via d’uscita sta nell’assegnare allo stato una funzione di supporto, premiando le imprese per gli impegni concreti che esse prendono, riprendendo e modificando alcune delle proposte emerse in queste settimane. Nel caso del gas, le autorizzazioni ad aumentare la produzione possono essere subordinate alla vendita di parte delle estrazioni aggiuntive attraverso contratti a lungo termine a favore di imprese o consorzi. Analogamente, le imprese (individualmente o attraverso consorzi) possono essere indotte a stipulare contratti di lungo termine per la fornitura di energia di fonte rinnovabile da impianti costruiti ad hoc e non incentivati. Questi contratti, noti come Ppa, sono già previsti nell’ordinamento e da tempo ci si chiede come stimolarli: gli alti prezzi attuali forniscono un’occasione irripetibile perché le imprese hanno una evidente convenienza ad assicurarsi una parte almeno del loro approvvigionamento a prezzo bloccato. Naturalmente, prezzi che oggi possono apparire competitivi non necessariamente lo saranno domani: come sempre, queste tipologie di contratto hanno una componente assicurativa, attraverso cui i sottoscrittori si proteggono dalla volatilità dei prezzi, assumendosi il rischio di trovarsi, in alcuni momenti, a pagare un poco di più. Fin qui, però, si tratta di iniziative puramente privatistiche che possono avere senso in prospettiva e che sono certamente coerenti coi target europei su rinnovabili e CO2, ma che non rispondono all’esigenza attuale.

E’ qui che potrebbe entrare lo stato: finanziando (attraverso erogazioni dirette oppure garanzie) una sorta di anticipo sui prezzi futuri, con la promessa di ricuperare la differenza durante la durata del contratto. Facciamo un esempio: supponiamo che un’impresa stipuli un accordo di durata decennale per la fornitura di energia elettrica (o gas) al prezzo di 50 euro/mwh a partire dal 2024, tenendo conto dei tempi necessari all’investimento. Secondo questo schema, lo stato potrebbe finanziare a tasso zero uno sconto sui prezzi attuali dell’energia per colmare la differenza rispetto ai prezzi correnti (diciamo 200 euro/mwh) nel periodo 2022-2024. Questo implica un debito di 150 euro per ogni MWH consumato, che andrà restituito durante il periodo di vigenza del contratto (2024-2034). Tale meccanismo ha un vantaggio (è semplice), un costo limitato per la collettività (di fatto i soli oneri finanziari più il rischio di controparte) e può contare su un precedente già consolidato nell’ordinamento (gli interconnector, attraverso cui gli industriali che partecipano alla realizzazione di interconnessioni elettriche con l’estero godono fin da subito dei vantaggi che beneficeranno l’intera collettività quando le nuove linee saranno operative).

Di fatto l’operazione potrebbe essere gestita interamente attraverso finanziamenti bancari, lasciando allo stato un ruolo sussidiario attraverso un sistema di garanzie analogo a quello offerto dalla Sace coi prestiti Covid. E il meccanismo potrebbe essere esteso ai venditori di energia elettrica e gas, che in questo momento si trovano in difficoltà: in altri paesi ci sono stati fallimenti a catena, in Italia ci sono per ora soltanto le prime avvisaglie. In sostanza, ci troviamo in un vicolo stretto: la situazione dei mercati energetici è esplosiva e questo giustifica un intervento pubblico; ma è anche dovuta a cause profonde che ci vorrà del tempo a rimuovere, e questo sconsiglia di proseguire con misure estemporanee e a 360 gradi. Bisogna costruire per lo stato un ruolo di sostegno all’economia, non di sostituzione del mercato. Durante questi ultimi anni sono stati fatti molti errori e risorse enormi sono state sperperate. Troppo spesso i governi hanno ceduto al populismo pandemico e, ora, indulgono nel populismo energetico. E’ il momento di ragionare su politiche che non abbiano solo l’obiettivo di tamponare le falle, ma anche quello di lasciare qualcosa al paese – una maggiore produzione nazionale di gas, nuovi impianti rinnovabili, e più sicurezza energetica quando arriverà la prossima ondata.

da Il Foglio, 10 febbraio 2022

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