23 Dicembre 2024
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
Ci sono, nel dibattito pubblico, degli evergreen. Per esempio: gli investimenti. Che sia necessario farne di più è un mantra. Ci sono due problemi. Il primo è che si ragiona come se gli investimenti, specialmente quelli pubblici, non si facessero più da anni. Il secondo è che quello che sembra contare è semplicemente quanti quattrini vengono impiegati, e non come.
Dopo la pandemia, c’è stato il Next Generation EU con cui l’Unione europea ha inteso spingere sulle due transizioni. Prima c’era il Piano Juncker, che facendo perno sulla Banca europea degli investimenti e sulle garanzie del Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis) ha mobilitato 500 miliardi, appunto, di investimenti. Per anni in Italia si è lamentato che gli investimenti pubblici sul Pil erano scesi, arrivando al 2,1% del prodotto nel 2019. Sono risaliti al 3,8%.
Verificare
La transizione verde è stata spinta finora soprattutto da sussidi alla domanda: il caso delle auto elettriche è quello più clamoroso. Nonostante i generosi incentivi le vendite vanno a rilento e persino le installazioni di colonnine non decollano. E di pochi giorni fa la notizia che è stato assegnato meno di un sesto dei fondi Pnrr. La transizione digitale ha previsto ampi sostegni alla banda larga, non solo nelle aree «a fallimento di mercato». È difficile trovare stime affidabili, ma verosimilmente parliamo di una spesa nell’ordine dei 3 miliardi, cui dovrebbero sommarsene altrettanti.
Ognuna di queste iniziative è stata salutata con grande favore. Poco è stato fatto per valutarne gli impatti, come sarebbe necessario dal momento che i rapporti Letta e Draghi propongono, per rilanciare la produttività europea, di continuare sulla stessa strada a velocità più elevata. Il settore pubblico sembra drammaticamente carente sia di strumenti ex ante che di strumenti ex post per verificare se le risorse messe a disposizione sono state effettivamente «investite», oppure semplicemente «spese». La differenza fra i due verbi sottende, in un caso, la presenza di un ritorno.
«Chi» investe? Non è un dettaglio irrilevante, se in campo c’è il pubblico o il privato. Il secondo tende a perseguire il proprio profitto, il primo alloca risorse sulla base di criteri extra-economici: non deve garantirsi un guadagno «monetario», ma perseguire una certa «utilità sociale». Il motivo del profitto è sovente accusato di condurre a una eccessiva attenzione al breve termine: si privilegiano opportunità che hanno esiti ravvicinati nel tempo, per accontentare gli azionisti. Non è detto che sia sempre vero e, ovviamente, la governance ha il suo peso: le deprecate imprese famigliari possono avere meno problemi nel traguardare la prossima generazione (oppure no), l’imprenditore-fondatore può più facilmente perseguire una «visione» non incentrata solo su qui e ora. Non è detto però che il pubblico sia «costituzionalmente» più lungimirante.
L’orizzonte di un decisore politico (nell’Italia repubblicana, la durata media dei governi è 14 mesi) è più breve di quello di un capo-azienda, il manager dell’impresa statale dipende, per i suoi piani, da un confronto con la politica il cui tempo è scandito dai meccanismi del consenso. Le mode (i temi e le policy di cui si parla più insistentemente) influenzano sia privato che Stato. L’imprenditore ogni tanto però può fare di testa propria, per chi dipende dalla politica è più difficile.
Per il rilancio degli investimenti, l’Italia e l’Europa si sono affidate a dei Minotauri: banche pubbliche — come Cassa depositi e prestiti e le sue consorelle — ma con una governance che include azionisti privati, finanziamenti privati con garanzie pubbliche, fondi di investimento a capitale misto, eccetera. Questi strumenti dovrebbero sommare il meglio dei due mondi. Che sia effettivamente così, è tutto da vedere. Non aiuta il mandato che viene dato loro. Che non è semplicemente quello di «stimolare gli investimenti» ma di orientarli in una direzione predeterminata.
Target
Aumentare gli investimenti per raggiungere un obiettivo politico (la transizione verde) ovvero stimolarli per far crescere la produttività non è la stessa cosa. Se pensiamo che la produttività europea non cresca perché le nostre imprese utilizzano tecnologie obsolete, il modo migliore per riprendersi il tempo perduto è che esse investano nei macchinari che ritengono più appropriati. Invece molto spesso i fondi messi a loro disposizione sono finalizzati a portarli a fare scelte che altrimenti non farebbero: cioè che non ritengono potenzialmente profittevoli. Maggiori sono gli stanziamenti, e più ne saranno ingolositi. Lo stesso vale per politica monetaria e tassi d’interesse: se indebitarsi costa meno, è più probabile che lo si faccia a cuor leggero. Diventa più facile anche seguire le sirene della politica.
La domanda chiave non è perché le imprese non fanno gli investimenti che non vogliono fare, ma perché non fanno quelli che vorrebbero fare. La risposta non sta nei fondi a disposizione, ma in tutte le difficoltà che aprire un nuovo impianto o negoziare nuovi contratti o ottenere il via libera dalle autorità per un nuovo prodotto contempla. Per questo la dimensione dell’impresa è un tema (aziende più grandi dovrebbero sopportare meglio tali costi) ma lo è pure lo scarso dinamismo economico. Le innovazioni più dirompenti le realizzano imprese nuove.
Tutto questo è assente dalle nostre discussioni. Conta solo quanto «cubano» i fondi messi a disposizione. Ma l’esperienza degli anni scorsi non è quella dell’Autostrada del Sole: di un grande investimento infrastrutturale che abbassa i costi delle transazioni e genera crescita. Tante debolezze non fanno una forza.