22 Marzo 2018
Origami/La Stampa
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Secondo Luca Ricolfi e i ricercatori della Fondazione David Hume, l’esito del Movimento Cinque Stelle alle ultime elezioni è quasi perfettamente sovrapponibile con il risultato della DC nel 1992. Ironie della storia: la seconda repubblica si chiude elettoralmente come si era aperta, solo che a presidiare quel cospicuo bottino di voti meridionali è non il partito-sistema per antonomasia, ma il partito-antisistema per antonomasia.
Le elezioni del ’92 sono quelle in cui si avvertiva più forte il pericolo “nordista”, prima che la “discesa in campo” del Cavaliere riallineasse lo scontro politico sull’asse nazionale. Se Ricolfi ha ragione, allora, la “mappa” del 4 marzo è la testimonianza palmare di come forse davvero gli ultimi vent’anni siano trascorsi invano. Rispetto, perlomeno, a un tema di fondo, a un “fatto” strutturale: cioè il perenne divario fra Nord e Sud.
Alla riunificazione, il reddito pro capite nella Germania Est era il 30% di quello della Germania Ovest. Oggi, è all’incirca il 70%. Le differenze permangono ma un processo di convergenza c’è stato. C’è una certa discussione, fra studiosi, circa quale fosse il gap fra Nord e Sud al momento dell’Unificazione: alcuni indicatori lasciano immaginare che ci fosse già un forte divario (altezza media, indice di alfabetizzazione) ma vi è anche chi stima che il Pil pro capite fosse grosso modo lo stesso. Oggi il Pil pro capite al Sud è la metà che al Nord.
La materia è stata abbondantemente indagata. Le diversità culturali legate al diverso assetto politico per secoli interi, il peso degli Stati pontifici e dei Borboni, latifondo e braccianti da una parte e affittanza dall’altra: sappiamo bene che Nord e Sud sono diversi.
Per questo, l’unica cosa che dovrebbe stupirci è lo stupore. E invece c’è una tendenza costante, nel dibattito pubblico, a evitare di parlare delle differenze territoriali. O a farlo soltanto in una direzione sola, individuando nel Sud Italia il beneficiario degli interventi a carattere solidaristico del resto del Paese. Per il timore di identificare una questione settentrionale, quasi ci fosse qualcosa di male nell’occuparsi della locomotiva d’Italia.
Lo scorso ottobre, i due referendum sull’autonomia in Lombardia e Veneto avevano analogamente prodotto una reazione di stupore nell’opinione pubblica. Per anni la parola “federalismo” era stata usata in accezione negativa, accompagnata da inevitabili perorazioni circa il “pasticcio” del Titolo V, riformato nel 1999. L’ultimo tentativo di riforma costituzionale andava di fatto nella direzione opposta, accentrando competenze.
E’ come se, dal momento che di federalismo parliamo appunto dai primi Anni Novanta, ci fossimo convinti che tutto quello che c’era da fare è già stato fatto.
Anche il voto del 4 marzo ci dice che le cose non stanno così. Come ce lo dice l’esperienza comune: ogni italiano è intimamente convinto che il Paese si divida in due, l’unica differenza è dove traccia la linea.
Non si possono risolvere problemi diversi con le stesse politiche. Il mix di marcato centralismo e elevata spesa pubblica aumenta, e non riduce, i conflitti distributivi. Consolida l’impressione per cui mezza Italia vuole vivere dei quattrini dell’altra metà che è esattamente il significato del voto democristiano al Meridione nel ’92, un voto di reazione contro quelli che venivano liquidati come gli “egoismi” delle Leghe.
Se ventisei anni dopo la mappa elettorale somiglia a quella di allora, vuol dire che divergenze e tensioni territoriali sono rimaste quelle che erano. Se avessimo provato davvero la strada del federalismo, potremmo dargliene la colpa. Se.
da Origami/La Stampa, 22 marzo 2018