Professor Nicola Rossi, un passato da economista in Banca d’Italia, Fmi e tante altre istituzioni. docente universitario, consigliere economico di Palazzo Chigi col presidente D’Alema e poi deputato e senatore. Oggi animatore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank liberale e liberista.
Le chiedo una previsione prima che una valutazione.
«Prego»
Il governo Meloni modificherà il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)? Se sì, come?
«Rispondo partendo da due temi. Il primo riguarda ciò che è successo negli ultimi 25 anni e che io ritengo debba essere evitato come la peste. E poi parlerei di ciò che immagino si stia facendo a Palazzo Chigi. O che comunque mi auguro che accadrà».
Dica pure…
«Non è vero che negli ultimi 25 anni l’Italia non ha speso le risorse europee. Si pensi al Mezzogiorno. Li abbiamo usati tutti eccome quei soldi; raccattando tutti i possibili progetti disponibili anche all’ultimo secondo pur di spendere o far comunque vedere che sapevamo farlo. Se va a vedere però i risultati, questi sono pari a zero. Anzi parliamo di ritorni negativi. La strada di raccattare ogni possibile progetto su cui spendere va evitata come la peste».
Il secondo tema?
«Penso (o comunque spero) si stia facendo una rassegna dei progetti con l’obiettivo di eliminare quelli che sono visibilmente implausibili o palesemente infattibili nei tempi previsti dal Pnrr. Avrà visto sicuramente l’elenco dei progetti nei vari file Excel. Cosa però più facile a dirsi che a farsi, perché dietro ogni iniziativa c’è un volto, un interesse, una comunità. Ci sarà da convincere la Città X o il sindaco Y. Alcune iniziative non hanno proprio senso comune. E ci saranno reazioni. Guardi a cosa è successo per quanto riguarda gli stadi. A questo si aggiunga un’appendice».
Ovvero?
«È una cosa ancora più complicata rispetto allo sfoltimento dell’elenco. Alcuni dei progetti che saranno eliminati con quali li sostituiamo? E qui si ritorna al tema iniziale. Bisogna assolutamente evitare di raccattare tutto ciò che è raccattabile. I progetti pronti ma chiusi nel cassetto sono solitamente quelli peggiori e comunque tali che nessuno si è sognato di realizzarli».
Il vecchio detto dice: «ma tanto tutto fa brodo». Quindi tutto fa Pil. Prima di non spendere, meglio spendere male?
«Il punto è proprio questo. Non è vero che tutto fa Pil. Noi abbiamo bisogno di quei progetti che ci consentano di fare quel Pil che ci permetta di rimborsare questi debiti. Anche se le condizioni del Pnrr sono molto favorevoli, dobbiamo comunque restituirli questi soldi. È necessario che questi progetti facciano Pil in misura anche superiore a ciò che è necessario per i rimborsare il debito. Dovremo comunque contenere il rapporto debito/Pil perché ancora non sappiamo come alla fine verranno modificate le regole fiscali europee. Il rendimento di questi investimenti è cruciale».
Secondo The European House Ambrosetti sono addirittura 170.000 i progetti teoricamente candidati alla finanziabilità. Un numero sterminato. Mi chiedo quale pubblica amministrazione possa mai valutare seriamente questi progetti. Non è un limite intrinseco aver sbriciolato così questo piano in mille e uno capitoli?
«E’ un limite enorme che ci porta a replicare gli errori già commessi in passato. C’è una letteratura ormai sterminata sui programmi di investimento realizzati nel Mezzogiorno. Un elenco infinito di iniziative. Bisognava concentrarsi su pochissimi interventi. Dobbiamo evitare di ripetere errori che abbiamo già commesso in passato».
Se chiedo ad una qualsiasi persona: «Mi descrivi il Pnrr?», non saprebbe mica farlo. Non ci sono pochi interventi-chiave tipo: una ferrovia super veloce che collega Palermo a Milano in meno di tre ore. Magari ci fosse!
«Ha colto il punto. Se si leggono attentamente tutte le iniziative all’interno del Pnrr ce ne sono alcune che sono proprio difficili da comprendere. Non mi riferisco alla finalità. Ma peggio ancora. Non si capisce proprio cosa siano. È incomprensibile l’italiano in cui sono scritti quei progetti. Purtroppo. si è partiti nel modo sbagliato».
Vale a dire?
«Non mi piace lo sport dello scaricabarile, ma c’è una responsabilità di partenza enorme. La responsabilità di chi, per fini propagandistici interni, è andato a raccogliere tutti i soldi possibili. Compresi quelli a debito. Cosa che praticamente quasi nessun altro Paese ha fatto. Un modo di agire veramente irresponsabile».
Lei ha citato in proposito l’albero delle monete d’oro nella favola di Pinocchio. Situato nel campo dei miracoli dentro il paese di acchiappa citrulli!
«E vogliamo parlare di come è stato presentato agli italiani il superbonus? E il reddito di cittadinanza? Una vera e propria impostazione ideologica. Un marchio di fabbrica».
C’è chi ha parlato di danno reputazionale al Paese con riflessi negativi sulla sostenibilità del nostro debito qualora rinunciassimo ad una parte del debito del Pnrr. Ma secondo me le cose stanno esattamente al contrario!
«Se si arriva alla conclusione che alcune cose è bene non farle perché, ad esempio, non rendono come dovrebbero in termini di Pil, questo è un atto di serietà. Come del resto fare ogni ragionevole sforzo per arrivare a realizzare progetti redditizi. È dal processo con cui si arriva a queste conclusioni che dipende la serietà del Paese».
Che idea si è fatto sul rendimento di questi progetti in termini di Pil? O di moltiplicatore?
«Piuttosto semplice rispondere. Fino al 2026 aumenta la domanda attraverso la crescita degli investimenti pubblici e quindi avremo un ritorno. Un effetto keynesiano per intendersi. Il problema vero sta nel dopo. Questi investimenti dovranno tradursi in un aumento del Pil potenziale raggiungibile nei prossimi lustri. Nei prossimi venti anni. Qui è difficilissimo fare previsioni. Numeri ne esistono ma è piuttosto complicato farci affidamento. Ci sono cose che hanno maggiore probabilità di produrre effetti benefici sul Pil potenziale. È evidente. Se completiamo le reti infrastrutturali per cui il Tir che esce dal porto non deve viaggiare su una mulattiera, per intenderci, avremo risultati migliori…».
Che non spendere soldi per un giro di briscola itinerante, sempre per intenderci…
«Esattamente!».
Giorgia Meloni sembra voler fare affidamento sulle nostre migliori imprese – come Eni ed Enel – per portare avanti i progetti. Sono realtà che hanno mezzi e capacità per gestirli. La convince l’approccio?
«Soluzione ragionevole. Le possibilità di progettazione e realizzazione sono senz’altro superiori rispetto a quelle della Pubblica amministrazione. Ma pure qui è bene intendersi. Non si possono replicare a livello aziendale gli errori che potrebbe commettere la Pubblica amministrazione. Il Tesoro in queste realtà è l’azionista di maggioranza relativa con il 30% circa. Ma poi ci sono azionisti privati come gli investitori istituzionali ed i risparmiatori. Servono progetti che abbiano un ritorno effettivo per il Paese (in termini di Pil potenziale) ma anche per l’azienda in sé (in termini di rendimento del capitale investito)».
Lei si è fatto un’idea di quanto possano costare questi fondi presi a prestito?
«Ipotizzerei ragionevolmente un paio di punti in meno rispetto al nostro attuale costo del debito che oscilla fra il 3% ed il 4%. Che sia più conveniente rispetto alle emissioni che facciamo sul mercato non ci piove. Ma sono comunque soldi da restituire. Ripeto: l’obiettivo è il tasso di crescita potenziale del Pil. Va colmata la distanza che si registra rispetto ai nostri principali partner europei: un punto percentuale nella media degli ultimi 25 anni».
Comunque, la deriva dirigistica dell’Unione Europea a noi sembra oggettivamente preoccupante. Dalle case green alle auto elettriche. Lo stesso Pnrr appare un vero e proprio piano quinquennale di sovietica memoria.
«In circostanze eccezionali, come ad esempio la pandemia, trovo ovvio che ci sia un coordinamento fra i vari Paesi per gestire l’emergenza. Da soli sarebbe impossibile. Ma su altre questioni di carattere industriale, come ad esempio la questione automotive, ho l’impressione che il coordinamento dovrebbe lasciare maggior spazio alla libertà di impresa nei singoli Paesi. Mi consenta di sottolineare come tutto ciò pone il problema di dare una legittimità democratica alla Commissione Ue le cui scelte possono essere invasive per i cittadini e per i Paesi membri. Soprattutto in un momento in cui la Commissione chiede di avere una maggior discrezionalità nella gestione del Patto di stabilità».
Che idea si è fatto a proposito della proposta di riforma del Patto di stabilità di cui tanto si parla?
«La mia valutazione è che si rischia di confondere la flessibilità con la discrezionalità. Le regole attuali sono flessibili. Non impongono che il disavanzo pubblico sia il 3%. Dallo 0% al 3% è lo spazio fiscale a disposizione di uno Stato che abbia il bilancio in pareggio per fare fronte alla congiuntura negativa. La flessibilità è ampia. Se aumenta la possibilità da parte della Commissione di interferire sulle scelte dei singoli paesi, non è affatto detto che questo significhi una maggiore flessibilità. Di sicuro è una maggiore discrezionalità per una Commissione Ue che, come dicevo, non ha legittimità democratica ad oggi. Una volta fissato un piano di rientro dal debito con le nuove regole, il percorso è rigido. Vedo il rischio che si arrivi ad una combinazione pericolosa. Lo dico da europeista convinto. Maggiore discrezionalità e maggiore rigidità».
da La Verità, 1 maggio 2023