Uno Stato essenziale contro l'eurostatalismo

Un libro di Sacconi e Mingardi delinea un modello di sussidiarietà per l'Italia futura

16 Dicembre 2022

Libero

Argomenti / Economia e Mercato Teoria e scienze sociali

Giorgia Meloni non è chiamata in causa per nome, ma è in ogni pagina del libro di Maurizio Sacconi e Alberto Mingardi. Cominciando dalla dedica: «A coloro secondo i quali lo Stato non deve disturbare chi ha voglia di fare». Chiaro il riferimento al discorso con cui il presidente del consiglio, il 25 ottobre, ha chiesto la fiducia in parlamento: «Il motto di questo governo sarà: “Non disturbare chi vuole fare”». Quelle parole sono state il segnale – anche ai suoi – che la leader di Fdi non intende farsi rinchiudere nel recinto della destra statalista italiana, ma è pronta giocare una partita da leader conservatore europeo, che quando serve non ha timore a farsi alfiere della libertà d’impresa (e in Italia serve quasi sempre e quasi dappertutto).

IDEE DI PESO
Sacconi è stato parlamentare di Forza Italia e ministro del Lavoro e della Salute nel quarto governo Berlusconi, e ora guida l’associazione “Amici di Marco Biagi”. Non ha incarichi ufficiali, ma non è un mistero che le sue idee abbiano un peso nelle scelte dell’esecutivo. Mingardi insegna Storia delle dottrine politiche allo Iulm di Milano e dirige l’Istituto Bruno Leoni. Insieme hanno appena scritto Stato essenziale, società vitale, un libro di «appunti sussidiari per l’Italia che verrà». Consigli indirizzati soprattutto a chi è appena arrivato al governo, affinché «abbia il coraggio della discontinuità» e prenda «la decisione di scatenare la società liberandola da molti dei lacci che la opprimono».

La «società vitale» di cui scrivono gli autori poggia sul principio di sussidiarietà, che prevede di «lasciare che le decisioni pubbliche vengano prese il più vicino possibile alle persone, “salendo” di livello solo quando è necessario e conveniente». Non faccia l’Unione europea, insomma, ciò che gli Stati nazionali possono fare meglio, e non facciano questi ciò che è meglio lasciare alle amministrazioni locali, e si astenga ogni potere pubblico dal produrre i beni e i servizi in cui eccellono i privati. Principi che hanno conseguenze importanti e vanno contro la vulgata che confonde il liberismo con la fiducia cieca nelle decisioni del super-Stato di Bruxelles.

L’esempio migliore lo offre il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza contrattato dal governo italiano con le autorità europee. Costruzione da venerare (e guai a cambiarne una virgola) secondo la retorica europeista, un programma «fortemente autoreferenziale» e da riscrivere per Sacconi e Mingardi.

La redazione del piano, infatti, «è stata per lo più curata da vecchi funzionari nel contesto del governo Pd-Cinque Stelle secondo un criterio di rivalsa dello Stato dopo i lunghi anni di controllo della spesa». E quando il governo giallorosso ha lasciato il posto a quello di Mario Draghi, «la differenza fra i “peggiori” e i “migliori” è stata circoscritta all’attuazione del Piano, evitando accuratamente di discutere delle questioni di fondo. L’imperativo è diventato “la messa a terra” del Piano in nome della quale nessuno avrebbe potuto disturbare i manovratori».

Eppure il filo conduttore del Pnrr, denunciano i due, è «quello di affrontare problemi sociali costituendo o rafforzando una struttura pubblica che se ne occupi, dai centri per l’impiego alle case di comunità», e trova la sua sublimazione nella «proliferazione di strutture di supporto e monitoraggio, dalla cabina di regia alle strutture di missione centrali, alle assunzioni a tempo determinato nei Comuni, agli esperti a contratto nelle Regioni e nei grandi Comuni, ai tecnici per il Sud, con il contorno di enti e organismi tecnici, agenzie, società in house».

LA STRADA DA MANTENERE

Insomma, strutture pubbliche che nutrono se stesse e creano altre strutture pubbliche, «il trionfo dell’autoalimentazione burocratica». Sostenuto dall’illusione – la stessa con cui per decenni si sono buttati miliardi nella fornace del Mezzogiorno – che l’unica cosa che conta sia “quanto” viene speso, e non “come”. Col risultato che si spende tanto, e a debito, «seguendo grosso modo l’antico metodo sovietico di formulare “piani”, stavolta sessennali anziché quinquennali, di intervento su tutti i settori dell’economia e della società».

E lo si fa seguendo priorità calate dall’alto, «perfettamente intonate con la melodia prevalente nelle classi colte europee, dalla transizione energetica alla parità di genere». Questioni che avranno la loro importanza, ma sono «del tutto eccentriche rispetto ai problemi che la pandemia ha sollevato».

C’è un’ottima ragione, quindi, per cui la conservatrice Meloni non deve deviare dalla strada che ha imboccato il 25 ottobre: prima di essere un proclama di libertà, quel «non disturbare chi vuole fare» è l’unico modo di rimettere in piedi l’Italia.

da Libero, 16 dicembre 2022

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