Stato essenziale, società vita di Mingardi e Sacconi

L'idea dello Stato-provvidenza può servire nella raccolta del consenso ma non a risolvere i problemi dell'Italia

22 Maggio 2023

Mondoperaio

Argomenti / Teoria e scienze sociali

L’Italia, il Mezzogiorno in particolare, necessita di meno Stato e più politica se vuole tornare a crescere. È la tesi sostenuta in Stato essenziale, società civile. Appunti sussidiari per l’Italia che verrà, il libro di Alberto Mingardi e Maurizio Sacconi recentemente pubblicato. Si tratta di una posizione alternativa al revival statalista in questi ultimi anni assai presente nel dibattito pubblico, sostenuta dai due autori seguendo un taglio pamphlettistico che nulla toglie al rigore dell’argomentazione. 

Punto di partenza l’interminabile crisi italiana, ricostruita riavvolgendo il filo del passaggio alla seconda repubblica per via giudiziaria e del rapido esaurimento dell’idea che lo stato e i partiti fossero in grado di fare un definitivo passo indietro rispetto al mercato; al contrario, dalle elezioni del 2013 in poi si è sempre più affermata l’idea dell’intervento pubblico coniugato, qui il micidiale apporto del grillismo, ad una rinnovata logica assistenziale. Il tutto in nome del superamento di una presunta stagione neo liberista che in Italia, in realtà, non era mai iniziata. Esemplari i due governi Conte, nel corso dei quali temi come liberalizzazioni, riorganizzazione della spesa, riforma del mercato del lavoro e della P.A., furono definitivamente archiviati. A prevalere gli interessi di gruppi organizzati in grado di affermare una sorta di tutela sulla politica, ricattandola. 

Di qui, la necessità di un recupero di autorevolezza di quest’ultima di cui si scorgerebbero i segnali, secondo i due autori, nella nuova fase apertasi con il post pandemia. Al che corrisponderebbe, secondo una lettura piuttosto controcorrente, un riallineamento alle tradizionali famiglie del pensiero politico, tale da chiudere la fase dei partiti personali appiattiti sulla leadership. Sul piano economico alla nuova fase corrisponderebbe una riaffermazione dei vincoli di bilancio e la necessità di trovare nella società, piuttosto che nello Stato, la risposta alla crisi. Insomma, il declino del “tassa e spendi”, tanto amato sia a destra, sia a sinistra. 

Che le cose stiano effettivamente così è auspicabile, anche se tutto da costruire sembra il blocco sociale cui demandare una nuova alleanza dei produttori cui questa analisi allude; ma questo è un compito che attiene alla politica che verrà, ai libri spetta fornire idee. Serve una scommessa sull’economia aperta, a fronte delle tentazioni protezionistiche affermatesi nelle democrazie occidentali in seguito alla pandemia che, producendo benefici elettorali nel breve termine, provocano danni nel lungo; non torneranno in Europa e negli Usa produzioni che continuano ad essere più convenienti in altri paesi, così come nulla hanno da guadagnare le economie manifatturiere europee da un restringimento della globalizzazione. Similmente, si propone il legame tra questione ambientale e tecnologia. Investire su rigassificatori e sistemi di cattura della Co2, su termovalorizzatori e nucleare di ultima generazione, piuttosto che inseguire improbabili riconversioni antindustriali. 

Il punto non è sostituire logiche manageriali alla politica, ma riaffermare che compito di quest’ultima è promuovere la produzione di ricchezza, non escogitare misure per ostacolarla. Leggi chiare e definite, strumenti di misurazione dell’azione amministrativa, giustizia rapida, scuola e università competitive, sanità efficiente, stato sociale in grado di sostenere chi rimane indietro. In sintesi, uno stato non più introvabile, citando il titolo di un saggio di qualche anno fa di Sabino Cassese che alludeva al paradosso tutto italiano di un potere pubblico tanto esteso quanto debole. 

Ma se una parte della crisi attiene alla questione burocratica, l’altra metà del problema riguarda se questo paese abbia o meno un futuro industriale. La posizione dei due autori è chiara nell’escludere qualsiasi scenario post manifatturiero; se l’Italia è rimasta a galla in questi anni lo si deve alla forza del suo settore industriale che ha innovato ed esteso quote di mercato proprio nel difficile frangente della pandemia. Grava sull’economia italiana lo storico problema delle ridotte dimensioni industriali, lo 0,1 delle (grandi) imprese produce il 30% del reddito nazionale, tuttavia è da questa vocazione che occorre ripartire, in barba alle scempiaggini sulla decrescita circolate in questi anni. 

Nel 2021 5,6 milioni di individui e 1,9 milioni di famiglie (il 7,5% del totale) erano in condizioni di povertà assoluta (Istat). Guardando alle disuguaglianze emerge la specificità del caso italiano. L’indice Gini, rimasto invariato nel periodo ’95-’04 al 34%, è salito al 44,3% nel 2020, per scendere nel 2022 al 30,2 con una diminuzione del 16,9 al Sud, 14,2 al Centro, 12,4 al Nord. Il problema è che si tratta di una riduzione in assenza di crescita, considerando che, esaurita la possibilità di bonus e trasferimenti vari, l’incremento del Pil nel 2023 è dato allo 0,1%, il che si traduce nel ritorno alla stagnazione. 

Il problema italiano sta nella mancata crescita e nella concentrazione della povertà in alcune aree urbane, soprattutto del mezzogiorno, non nella redistribuzione, posto che la disuguaglianza, al 30,7%, è nella media dei paesi europei. L’idea dello stato-provvidenza può servire nella raccolta del consenso, peraltro effimera, ma non risolve i nodi sistemici; a ciò si aggiunge che la ricomparsa dell’inflazione non rende più percorribili politiche fondate su aiuti e sussidi. In assenza di risorse da indebitamento, il focus torna non solo su ciò che lo stato fa, ma su come lo fa. 

“Non conta il numero delle strutture sanitarie, ma il miglioramento dello stato di salute. Non conta il numero dei docenti, ma la qualità della didattica che è strumentale alla riduzione dell’abbandono scolastico e all’aumento dell’occupabilità”. Una citazione che spiega quanto sia arduo il compito del riformismo in Italia, considerando la mole di interessi che scelte politiche del genere andrebbero a disturbare e di quanto sia necessaria una scelta di campo riguardo agli attori sociali che si vogliono rappresentare. Non si fanno riforme se si vuole rappresentare tutti. 

Ci limitiamo ad accennare qui al capitolo dedicato alla giustizia e al paradosso di un controllo di legalità in grado di paralizzare l’iniziativa di una burocrazia preoccupata più di incorrere nelle generiche maglie dell’abuso d’ufficio, che degli obiettivi da conseguire; così pure le pagine dedicate all’istruzione: buono-scuola, già presente nel programma elettorale del terzo polo, rilancio dell’apprendistato, piena autonomia degli istituti scolastici, in primis nella gestione del personale, accorpamento delle sedi universitarie. Il capitolo chiave del libro è quello finale, in cui si affronta il nodo del Mezzogiorno, oggetto forse della più grande rimozione politica compiuta negli ultimi decenni dai partiti o da quel che ne resta. 

Vi è una corrente di pensiero che immagina il futuro del Sud diviso tra assistenzialismo e turismo. Tuttavia, il Mezzogiorno ha bisogno di crescita e questa non può che venire da investimenti privati attirati da condizioni “ambientali” favorevoli. Il che rimanda ancora una volta alla questione dello Stato e al fallimento delle politiche pensate nei primi anni ’90 nell’ambito della cosiddetta programmazione negoziata; premessa ne era la centralità degli enti territoriali (Regioni e consorzi di Comuni) nella individuazione di linee guida dello sviluppo che avrebbero dovuto coinvolgere l’imprenditoria locale. Il risultato fu un processo decisionale ingolfato, iper burocratico e minato dalle inevitabili conflittualità tipiche della politica locale. L’illusione di ottenere risultati immettendo benzina, a prescindere dall’efficienza della macchina. 

Se tale modello sarà riprodotto nell’utilizzazione dei fondi PNRR, di cui ben il 40% è destinato al Mezzogiorno, potremo parlare dell’ennesima occasione sprecata. Ciò di cui abbiamo bisogno è il ribaltamento dei consueti rapporti tra livello pubblico e forze economiche, in una divisione dei compiti definita. In questa direzione va il nuovo strumento legislativo previsto da un decreto legge del 2017 che prevede l’istituzione delle Zes (Zone Economiche Speciali), ambiti territoriali definiti nelle regioni meridionali in cui si applicano semplificazioni amministrative (deroga al codice degli appalti, per i soli fondi PNRR), benefici fiscali nella forma del credito d’imposta per investimenti (tetto di 50 milioni), gestione commissariale. 

Si tratta di uno strumento che segna due importanti novità: la consapevolezza che nessuno sviluppo del Mezzogiorno è pensabile fuori di un’ottica industriale connessa ai grandi nodi di scambio, non a caso l’individuazione delle Zes ha come premessa la presenza di infrastrutture portuali; l’affidamento ai poteri pubblici di una funzione non di indirizzo, ma di facilitazione. Il tempo ci dirà se da queste premesse potrà scaturire una reale discontinuità, ma è su temi come questi che dovrebbe concentrarsi l’interesse dei decisori politici. 

Il libro di Mingardi e Sacconi andrebbe letto da chi, pensiamo soprattutto ai riformisti presenti nel Terzo Polo e nel PD, aspira a costruire un’alternativa non populista alla destra. Anni fa Alesina e Giavazzi scrissero un saggio, Il liberismo è di sinistra, che vedeva nell’espansione del libero mercato la condizione per un avanzamento complessivo della società. Fu accompagnato da un coro di indignazione perché osava mettere in connessione riforme, sinistra e libero mercato. L’auspicio è che il saggio di Mingardi e Sacconi trovi un ambiente più favorevole e interlocutori politici coraggiosi disposti a sfidare i venti statalisti che raccolgono ancora molti consensi.

da Mondoperaio, maggio 2023

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