Stato padrone, senza esagerare

Se è immune dai vecchi vizi e dall'accentramento autoritario può essere funzionale. Il vaccino, però, non esiste ancora

9 Maggio 2022

L'Economia – Corriere della Sera

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Economia e Mercato Teoria e scienze sociali

La risposta della sinistra italiana alla domanda «quanto intervento pubblico serve» è invariabilmente la stessa: di più. Gli argomenti a suo sostegno sono di questi due tipi. Da una parte, non c’è problema che non sia ricondotto al libero gioco degli attori economici. Giudicando gli esiti del processo economico col lusso del senno di poi, si ipotizza che ex ante la mano visibile dello Stato avrebbe potuto indirizzarlo su una strada migliore. Dall’altra, si confrontano le intenzioni: quelle autointeressate, e dunque presumibilmente egoistiche, del privato orientato al profitto, e quelle al contrario ispirate ai criteri dell’interesse generale e volte a sostituire alla prospettiva, sempre parziale, dell’impresa, quella più ampia del pubblico.

La fotografia del nostro tempo è «accompagnata da didascalie in cui lo Stato compare come regolatore ma anche come gestore, come promotore di attività, distributore di risorse». Fra gli anni ’80 e la fine degli anni ‘90, lo Stato non se n’è andato da nessun Paese occidentale: la spesa pubblica ha continuato a crescere, ma a velocità inferiore e la retorica politica esitava, dopo abbondanti prove contrarie, a presentare lo statalismo come soluzione di tutti i problemi. Con la pandemia le cose sono cambiate. Tuttavia, affermare buone ragioni per l’intervento pubblico non chiude la partita. Perché esso porta con sé dei rischi, che in Italia dovremmo conoscere particolarmente bene.

E’ questo il monito di Giuliano Amato, rivolto soprattutto a quella che è stata la sua parte politica. L’ultimo libro del Presidente della Corte Costituzionale si intitola Bentornato Stato, ma (Bologna, il Mulino, 2022, pp. 112). Il «ma» è l’oggetto del saggio. In un Paese dove «la proprietà pubblica di imprese raggiunse un’estensione sconosciuta altrove», «simboleggiata dai panettoni e dai gelati di Stato», e dove «un intero ente di gestione, l’Efim, nato come finanziaria di partecipazione a sostegno dell’industria meccanica, si trovò addosso col passare degli anni tante partecipate ormai prive di prospettive da un accumulare migliaia e migliaia di miliardi di debiti», non si può far finta che bastino le migliori intenzioni del governante pro tempore a battezzare «necessario» l’intervento pubblico. Per quanto nel libro, con eleganza, non se ne faccia quasi menzione, è difficile non ricordare che l’autore è stato premier fra il 1992 e il 1993, al timone di un governo che fronteggiò assieme una tremenda crisi fiscale e la tempesta che travolse la repubblica dei partiti.

Intervenendo alla Camera dei Deputati a conclusione di quell’esperienza, Amato sottolineava come l’esplosione della corruzione non fosse che la «progressiva amplificazione di una tendenza forte della storia italiana». Quella, cioè, a fondare i partiti su uno scambio fra sostegno popolare e provvidenze. La vasta presenza dello Stato nell’economia, ricorda oggi Amato, faceva sì che tanti imprenditori trovassero più razionale «frequentare gli uffici romani, diventando speculatori che guadagnano sulla burocrazia» che concentrarsi sulla concorrenza. Parimenti, «anche le burocrazie ministeriali e il management delle società pubbliche» creavano «lo spazio per interessi propri, aventi in più casi la medesima natura di quelli meno commendevoli della politica».

Con la «partecipazione degli enti di gestione delle partecipazioni statali in società per azioni» il tentativo di Amato era quello di imporre un alt ai partiti «espulsi, da quel momento, dal sistema in cui erano penetrati tanto a fondo». Che «privatizzazione» e «moralizzazione» andassero di pari passo era chiaro alla maggioranza degli italiani, che votarono per abolire il finanziamento pubblico dei partiti ma anche per sopprimere il ministero delle partecipazioni statali e quello dell’agricoltura. Ma visto che la «seconda repubblica» è stata ben lungi dal mantenere le promesse, e un po’ anche perché alla lunga alla classe politica riesce difficile farsi eleggere promettendo di limitare anziché ampliare il raggio d’azione, ce ne siamo dimenticati. L’unico che abbia ricordato il nesso fra interventismo e corruzione, in occasione del trentennale di Mani pulite, è stato Franco Debenedetti, con un articolo sul Foglio.

Il Presidente della Corte Costituzionale torna in un dibattito che l’ha visto protagonista con tutto il garbo dell’istituzione. Dà il «bentornato» allo Stato ma, specifica, «immune dai suoi vecchi vizi e lontano, in ogni circostanza, dall’hybris dell’accentramento autoritario». Sa bene che, purtroppo, non è ancora stato approvato un buon vaccino. Ritiene «impressionante la quantità di sussidi, bonus, indennità» erogati dallo Stato provvidenza pandemico. Segnala che il golden power che dovrebbe proteggere gli asset «strategici» determina «una fenomenologia largamente nuova di interferenza pubblica nell’economia». Non si pronuncia su questioni specifiche, ma lascia intendere che l’uso che si fa dei quattrini del contribuente non è il migliore possibile (ha senso comprare per 8 miliardi Autostrade, il cui mestiere è gestire una concessione pubblica, anziché aspettare che quella concessione scada e poi decidere?).

Per carità, Amato ha simpatia per le intenzioni della sinistra odierna e accetta di buon grado che le sfide del presente richiedano nuovi interventi pubblici. Ma ritiene che le idee, in politica, vadano misurate sui fatti. E che la memoria conti almeno quanto l’ideologia.

da L’Economia – Corriere della Sera, 9 maggio 2022

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