Straborghesi

Dopo esserne stati i paladini, i borghesi stanno tradendo i principi del libero mercato per seguire le lusinghe del potere politico


28 Aprile 2025

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

È difficile pensare quelle che Benjamin Constant chiamò le «libertà dei moderni»,- strettamente connesse a una strenua difesa dell’individuo quale soggetto autonomo, senza l’irrompere sulla scena storica della borghesia: quel ceto d’imprenditori, commercianti, lavoratori e artigiani che ha imposto al centro dei dibattiti proprio il tema dell’indipendenza personale. La monumentale trilogia che Deidre McCloskey ha scritto tra il 2006 e il 2016 per esaminare la grande trasformazione conosciuta dall’Europa e poi dal mondo intero ha il grande merito, tra gli altri, di farci riconsiderare il ruolo storico di questo gruppo sociale.

Le radici della società borghese sono nell’universo medievale, quando la città torna a definirsi quale spazio di mercato: luogo di scambi e d’incontri. La città – il “borgo”, da cui quel gruppo sociale trasse il nome – è anche un’istituzione comunale, il cui compito primario consiste nel proteggere i titoli giuridici e favorire gli affari. Se non è pensabile una borghesia senza mercato, è egualmente vero che allo sviluppo di tale forma istituzionale è funzionale la presenza di dispositivi posti a tutela della proprietà (milizie armate, ma anche apparati legali) e di strutture in grado di favorire le relazioni capitalistiche, a partire dalle banche. È interessante rilevare che la più antica cambiale di cui si abbia testimonianza sia servita, all’inizio del tredicesimo secolo, a permettere a un uomo d’affari genovese di ottenere, una volta giunto a Palermo, i soldi di cui là aveva bisogno.

Una nota formula tedesca medievale recitava che “l’aria delle città rende liberi”, dato che quando un servo della gleba abbandonava la campagna egli aveva la possibilità, dopo dodici mesi, di recidere i propri vincoli feudali e affrancarsi. Questo, tra le altre cose, aiuta anche a capire perché abbiamo due Italie: quella centro-settentrionale, in cui il fenomeno comunale s’affermò in maniera tanto significativa, e quella meridionale in cui, invece, s’ebbe il prevalere di logiche accentratrici, dettate dal dominio esercitato dai poteri sovrani.

La borghesia vede la luce in un’età, tra l’ultima parte del Medioevo e la prima della modernità, ricca di banchieri e uomini intraprendenti. Anche quando lo Stato moderno s’impone, a ogni modo, essa riesce a resistere in vari modi, sapendo in più occasioni contrapporsi alle pretese dei governanti. Secondo quanto racconta Turgot la stessa formula laissez-faire fu impiegata per la prima volta quando un mercante di nome Thomas Legendre replicò con quelle parole al ministro Jean-Baptiste Colbert: il primo funzionario di Luigi XIV aveva chiesto che cosa egli avrebbe potuto fare per aiutarlo e la risposta, in sostanza, fu di non fare proprio nulla e non interferire nella vita economica.

La borghesia nasce libera, orgogliosa di sé, avventurosa, desiderosa di costruire il proprio presente e il proprio futuro in autonomia. Con il mutare delle istituzioni, però, essa è cambiata in profondità.

Nel momento in cui lo Stato e i suoi apparati hanno soggiogato ogni competitore, i borghesi sono stati largamente assorbiti dal sistema di regolazione e redistribuzione che i poteri del sovrano hanno articolato. Nessuno può allora davvero sorprendersi nel constatare che, in questa situazione, la borghesia sia stata sempre più statizzata e “normalizzata”.

All’inizio dell’età moderna lo Stato assoluto dovette fare i conti con un ordine giuridico indipendente e con un ceto di giudici chiamati a decidere in autonomia. Questa, però, non era una situazione accettabile da parte di chi voleva costruire un potere irresistibile. Il crescente controllo politico dell’ordine legale spinse allora i vari gruppi sociali a fare tutto il possibile per “catturare il regolatore”, e quindi per ottenere norme a proprio favore. Entro tale quadro la nuova borghesia di Stato giocherà un ruolo fondamentale, avvertendo come fosse assai meglio conseguire stabili rendite politiche invece che ricercare incerti profitti di mercato.

Quando i poteri statali s’appropriano dell’ordine giuridico, le norme finiscono per essere null’altro che decisioni arbitrarie del ceto politico, perdendo ogni generalità e astrattezza, e quindi facendosi espressione della prepotenza di alcuni a danno di altri. In termini generali, si può dire che l’imporsi della legislazione (a scapito della giurisprudenza, della dottrina e della consuetudine) condusse al trionfo dell’arbitrio dei politici e di quanti sanno piegare la legge ai loro privatissimi interessi.

Per comprendere dunque il contesto in cui opera la borghesia contemporanea è allora utile ricordare una cosa ben nota agli studiosi delle democrazie moderne: il fatto che esse, in sostanza, sono in misura significativa “plutocrazie”. Si tratta di sistemi decisionali al cui interno non decide il popolo (la semplice somma delle opinioni di tutti gli individui), ma invece il denaro, che in vario modo è in grado di manipolare e condizionare le convinzioni dei più. In effetti, chi possiede enormi risorse economiche ha una maggiore capacità d’influenzare a proprio favore il dibattito pubblico. Alla fine, per i borghesi è stato facile comprendere come la loro posizione sociale fosse in grado di orientare le scelte collettive e spingere in una direzione a loro favorevole le principali decisioni: dalla politica fiscale a quella monetaria, dagli investimenti in grandi opere alle transizioni verdi, e via dicendo.

D’altra parte, la città dei borghesi da tempo non è più in primo luogo il luogo dei mercati, ma invece sempre più quello del potere. Quando inventa la modernità politica e collettivizza la sovranità regale di matrice cinquecentesca, Rousseau pone le basi per uno sviluppo che, in Occidente, non arriva quasi mai a cancellare del tutto gli istituti della proprietà e del contratto, ma di fatto produce un sostanziale rigetto della civiltà dei commerci. Dopo di lui, gran parte delle contestazioni mosse all’industrializzazione (formulate da conservatori, socialisti, nazionalisti e ambientalisti) riformuleranno in termini sempre nuovi l’insofferenza del Ginevrino per i tratti più liberali della modernità.

Per questa ragione, la borghesia odierna quasi sempre detesta il laissez-faire e ambisce a giocare un ruolo fondamentale nella gestione e nell’orientamento delle decisioni politiche. Al riguardo è significativo che nel corso delle ultime elezioni statunitensi (ma lo stesso vale per quelle precedenti) una parte consistente delle donazioni dei maggiori gruppi finanziari sia andata ai democratici, la cui piattaforma politica è sempre stata lontana da ogni valore borghese e da ogni logica di mercato.

In definitiva, la progressiva statizzazione della società ha spinto la borghesia a farsi parastatale. C’è però anche altro. Quel processo di egemonia culturale gramsciana che ha avuto luogo in tutto l’Occidente e ha marginalizzato la cultura della libertà (e si capirebbe ben poco del presente conflitto in atto tra Washington e Harvard, ad esempio, se non si avesse chiaro tutto ciò) ha spesso spinto la borghesia a odiare se stessa e i suoi valori tradizionali. Se allora oggi le élite occidentali incarnano una paradossale “borghesia anti-borghese” questo si deve a un nefasto incontro tra interessi e ideologia, tra parassitismo di Stato e cultura dirigista. Sotto vari punti di vista, allora, il declino dell’Occidente appare strettamente correlato alla metamorfosi – nel ruolo chiamato a giocare e nei valori incarnati – che ha conosciuto la classe borghese, che nei secoli passati aveva dato un contributo cruciale a proteggere la società dal potere e ora, invece, ha deciso di passare dall’altra parte della barricata.


Edita da Silvio Berlusconi editore, la trilogia sulla civiltà borghese di Deidre McCloskey (nell’edizione italiana si tratta di poco meno di 3000 pagine) non può mancare nella biblioteca di chi ha a cuore le ragioni della società libera. In questi volumi, l’economista americana mette in discussione una serie di luoghi comuni riguardanti il capitalismo; e non si tratta solo di mostrare come la Rivoluzione industriale abbia contribuito ad affrancare quasi tutta l’umanità dalla miseria, ma soprattutto di comprendere che ciò è stato possibile grazie all’affermarsi di ben precisi valori (come suggeriscono i titoli: Le virtù borghesi, Dignità borghese, Eguaglianza borghese).

Storica dell’economia legata alla scuola di Chicago, già vari decenni fa McCloskey aveva mostrato una fenomenale capacità di muoversi entro ambiti diversi: basti pensare agli scritti degli anni Settanta sulle «enclosures» (che hanno riformulato la questione dei «campi aperti») e al testo del 1985 – in Italia tradotto da Einaudi – sul ruolo che la retorica gioca nell’economia. I tre testi sulla civiltà borghese poggiano allora sulla convinzione che la vita economica non sia separabile dalla cultura, che anzi è alla base di ogni sistema produttivo. Si capisce dunque ben poco della modernità liberale se non si avverte come il successo del Vecchio Continente sia stato legato al radicarsi di virtù connesse al lavoro, al risparmio, al rispetto della parola data e alla creatività di chi assume rischi e, al tempo stesso, sa muoversi con prudenza e senso di responsabilità.

Quella di McCloskey è certo un’opera controcorrente, dato che un intellettuale occidentale – solitamente – si sente in dovere di esprimere disprezzo per la civiltà mercantile. Magari è pronto a riconoscere che essa sa moltiplicare beni e servizi, ma in ogni caso non rinuncerà a sottolineare che il prezzo da pagare è il naufragio dell’anima: la si chiami alienazione oppure secolarizzazione. Per McCloskey non è così, anche perché – come insiste nell’ultimo dei tre volumi – tutto poggia su un’idea di eguaglianza.

In effetti, per la borghesia gli uomini sono eguali in dignità e tutti hanno il medesimo diritto a essere lasciati in pace. La sensazione, però, è che questa parità oggi sia in larga misura scomparsa, a causa del trionfo di politiche discriminatorie (a favore delle donne, dei gruppi etnici o altro ancora) che hanno generato nuove barriere e buttato alle ortiche una delle maggiori conquiste della società liberale.

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