Sui Big Data la sfida è legittima ma va disinnescata

Ora che la fiducia nella tecnologia pare non andare più d'accordo con la fiducia nella libertà, potrebbe essere giunto il momento in cui limitare l'una per salvare l'altra

1 Giugno 2018

Il Sole 24 Ore

Franco Debenedetti

Presidente, Fondazione IBL

Argomenti / Teoria e scienze sociali

«Apocalittici e integrati»: allora divisi sulla cultura di massa, oggi sulla rivoluzione digitale. Per questi, componente essenziale della nostra vita; per quelli, minaccia al funzionamento del sistema capitalistico e delle democrazie. Più che vedere se gli “apocalittici” hanno abbiano ragione o torto, è importante che gli “integrati” abbiano le idee chiare sulle accuse mosse ai Gafa (Google, Apple, Facebook, Amazon).

Queste appaiono essere i due tipi: l’una contro la rivoluzione digitale stessa, l’altra contro la struttura produttiva che ne è emersa; l’una luddista, antitecnologica, mossa dal timore per il potere disruptive dell’economia digitale; l’altra strutturale, contro il gigantismo dei protagonisti ed il potere, non solo tecnico, ma economico e politico di cui dispongono.

Sul banco degli imputati
Sono del primo tipo le accuse per la disoccupazione tecnologica, le competenze polarizzate, le diseguaglianze accresciute; per gli effetti del consumo dei mezzi di informazione digitale sulla capacità di concentrarsi, di memorizzare, di elaborare; per le dipendenze e le bolle cognitive che si formano nei social media, fino alla manipolazione del consenso e ai rischi per la democrazia.

Sono del secondo tipo l’accusa a ciascuna azienda di essere un monopolio nel proprio settore; di aver raggiunto vertiginose capitalizzazioni di borsa vendendo a caro prezzo i dati acquisti gratuitamente; di non pagare sostanzialmente le tasse, nei Paesi europei, grazie ai ruling, in Usa, grazie alla sospensione delle tasse sugli utili non rimpatriati; di aver prodotto il conformismo, l’equivalente, nel “mercato” delle idee, del monopolio nei sistemi a rete.

Il tema del monopolio, il timore che la concentrazione di potere sia un pericolo per la libertà ha dominato la politica americana. Chi accusa i Big Tech usa la parola monopolio non nel senso tecnico, ma in quello che ha avuto, nel discorso politico, per connotare in senso lato aziende dominanti; lamenta che la concentrazione economica abbia cessato, verso la metà del secolo scorso, di essere ragione di preoccupazione, e che obiettivo dell’antitrust sia ora la discesa dei prezzi. Vorrebbero che Google, Amazon e Facebook fossero perseguiti come monopoli, e trattati come furono la Standard Oil e l’AT&T: spaccati.

Dagli hippy ad Ayn Rand
C’è continuità, storica e culturale, tra l’emergere nella Silicon Valley della tecnologia digitale e il suo sviluppo planetario, tra la beat generation e i nuovi giganti: i sobborghi di San Francisco sono stati l’epicentro nazionale della cultura psichedelica e del computer. La tecnologia del computer promette una condizione di comprensione e di unità universali, e il world wide web può connettere tutte le persone del mondo. Ogni innovazione promette di liberare la tecnologia dal tallone dei monopolisti.

Per un po’ è andato così, poi non più. Il personal computer è dominato da una sola azienda, Microsoft, e l’accesso a internet dalle grandi compagnie di telecomunicazioni; Google è il portale alla conoscenza e Amazon del retail, e nei social network Facebook connette oltre 2 miliardi di individui. Al posto della cultura della beat generation oggi domina quella libertaria di Martin Friedman e di Ayn Rand. Per gli apocalittici, spaventa ancor più la prospettiva futura: Google vuole fare un database della conoscenza globale e istruire gli algoritmi per trovarne la trama, e potrebbe avere i milione di dipendenti. Facebook vede l’algoritmo come un mezzo per liberare il mondo dal peso di dover scegliere. Amazon vuole riorganizzare il mercato retail, e diventare il più grande bazar del mondo.

L’affare recente Facebook-Cambridge Analytica ha portato alla luce problemi sistemici: la difficoltà, di garantire la tutela della privacy lungo tutta la catena delle app; la capacità degli algoritmi di profilarci, come consumatori, ma anche come elettori, distorcendo il meccanismo democratico; la liceità e l’efficacia pratica della profilazione ‘psicologica; la natura stessa dell’algoritmo, che possa sacrificare l’equità per l’efficienza e l’attendibilità del giudizio per la funzionalità dell’apparato.

Il dato è l’elemento base di tutti questi modelli industriali: quello di Google nel ranking, di Amazon nelle raccomandazioni tramite algoritmi, di Facebook nei news feed. Tutti accumulano quantità enormi di dati, che consentano di vedere correlazioni e trovare tracce.

Mai dati, per gli apocalittici, influenzano le nostre scelte, le nostre abitudini di consumo e intellettuali, venduti e comperati come una commodity, senza il consenso dell’interessato. Hanno prodotto, questa l’accusa, imperi senza riguardo per la privacy, e continueranno a spostare i confini con tecniche sempre più invasive prer avere il ritratto completo di noi. Le minacce alla privacy e al mercato concorrenziale sono ormai la stessa cosa: il problema del monopolio ha cambiato forma.

Sono questioni particolarmente critiche per gli Americani, che si consideravano l’avanguardia di due rivoluzioni, una scientifica l’altra politica, sempre andate di pari passo: la libertà ha creato un’economia dinamica che ha fortemente incentivato la creatività. Ora la fiducia nella tecnologia pare non andare più d’accordo con la fiducia nella libertà, potrebbe essere giunto il momento in cui limitare l’una per salvare l’altra. Le idee sul mercato competitivo sono a rischio quando la proliferazione di falsità può creare le condizioni mature per l’autoritarismo.

Quando il backlash è così diffuso e radicato, è impossibile contrastarlo, e pericoloso è sperare che si risolva col tempo.

Alcuni argomenti potrebbero essere disinnescati: quello di non pagare tasse con la modifica delle regole comunitarie che rendano impossibile agli stati offrire ruling tanto vantaggiosi, e con il rimpatrio degli utili accumulati grazie alla riforma fiscale di Trump.

Sulla privacy, la risposta dell’Unione europea, potrebbe diventare lo standard di riferimento. Alle fake news dovrebbero provvedere le risorse stesse della tecnologia, speriamo. «Quid est veritas» è un problema più antico.

I limiti all’antitrust
Ricorrere agli storici interventi antitrust, forse giuridicamente non agibili, sarebbe praticamente rovinoso. E poi, come individuare il mercato di riferimento, se i concorrenti temibili sono solo in Cina, e in America si fan concorrenza tra di loro? Alcuni propongono di proibire ulteriori integrazioni verticali, oltre a quelle già avvenute. La commissaria Vestager prende di mirai dati: vuole vietare l’acquisizione di Shazam da parte di Apple, non perché costituirebbe una posizione dominante sul mercato della musica, ma per la quantità di dati, di localizzazione, di scelte effettuate in passato, che Apple così acquisirebbe. Sullo sfondo c’è la possibilità di considerare le loro piattaforme come essential facility, e quindi di regolare Google e Amazon come fossero delle utility Individuare l’epicentro di questo movimento tellurico sembra necessario per un programma che valga a disinnescare queste reazioni senza compromettere lo sviluppo tecnologico da cui dipende il nostro futuro. Il dato, già esplicitamente alla base di tante accuse, sembra essere il candidato più promettente. E che quindi convenga focalizzare l’attenzione, più che genericamente sull’economia digitale, concretamente sull’economia dei dati.

Da Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2018

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