Sulla filantropia di Mr. Facebook c'è un dettaglio (mercatista) che sfugge

Buone cause, certo, ma con lo stile del profitto

22 Gennaio 2016

Il Foglio

Alberto Mingardi

Direttore Generale

Argomenti / Teoria e scienze sociali

E’ curioso come, quando si discute di filantropia, sfugga ai più il dettaglio più rilevante. Davanti ai Mark Zuckerberg, osservatori e opinionisti si scappellano volentieri. Ganzo, il plutocrate che gives back to the community. Ma si “restituisce” qualcosa che si è tolto. Zuckerberg non ha sottratto nulla a nessuno. Se ha “incassato” l’approvazione dei consumatori, è perché ha offerto loro un servizio che essi trovano di proprio interesse e di proprio gradimento. Chi acquista un certo bene o un certo servizio apprezza quel bene o quel servizio di più di quanto non valuti il denaro che scambia con esso. L’uso del verbo “restituire” tradisce un pregiudizio diffuso: la ricchezza ha sempre qualcosa da farsi perdonare. Celebra la filantropia come atto di ipocrisia, nella migliore delle ipotesi come PR, un’abile mossa per garantirsi un po’ di pace sociale. Il capitalista si tassa da sé, prima che lo tassino gli altri.

Se però ci mettiamo davvero dal punto di vista della società, non c’è dubbio che la cosa più “sociale” che un imprenditore possa fare è per l’appunto fare l’imprenditore. Il capitalista Bill Gates, avendo l’unico obiettivo di fare profitto, ha portato un personal computer in tutte le case. Se non ci ricordiamo neppure come scrivevamo prima di Word, e come diamine si facevano i grafici senza Excel, è in larga misura merito suo. Ha liberato tempo e risorse, a vantaggio di milioni di persone. Il filantropo Bill Gates investe una considerevole porzione della sua fortuna a beneficio di alcune buone cause. Magnifico: basta sapere che il Gates capitalista ha accresciuto il nostro tenore di vitai assai più di quanto possa fare il Gates filantropo. Quest’ultimo darà un contributo, speriamo decisivo, a risolvere alcuni problemi. Il primo ha dato a milioni di persone gli strumenti per scegliere, autonomamente, quali problemi provare a risolvere. Chi innova non trattiene per sé che una parte, del “surplus sociale” che ha creato.

Se la filantropia è una pratica grande e preziosa, non è perché coincide con una forma di autotassazione. Il filantropo pesca, dal mazzo delle buone cause, quelle che gli paiono più adeguate. Esercita una scelta. Valuta dov’è che una iniezione di capitale può fare la differenza: anche se in questo caso sceglie di non averne un ritorno monetario.

E’ lui che decide quali obiettivi darsi, a quali istituzioni affidarsi. Se lo deludono, smette di firmare assegni. Se comprende che sta sparando alla luna con una cerbottana, cambia strategia. Se l’investimento non va a buon fine, perde denari suoi.

Il bello della filantropia non è che “mette a disposizione” delle risorse. Ma che quelle risorse vengono stanziate da qualcuno che controlla attentamente, con l’intendimento che vengano ben spese. Dal non profit si pretendono costi di gestione moderati, attenzione ai progetti, persino la continua invenzione di metriche (spesso vaporose) per evocare la tanto bistrattata logica del profitto. E’ il contrario della logica della burocrazia, per cui il vero business è l’intermediazione, il progetto è la scusa per mantenere l’apparato.

L’idea che a vantaggio di una buona causa tutto impallidisce,e pertanto si possono allegramente dissipare quattrini, è l’architrave delle nostre socialdemocrazie. Lo stile del motivo del profitto, applicato ad ambiti dove non s’investe per fare profitto: è questo ciò che davvero i capitalisti filantropi “restituiscono” alla società.

Il Foglio, 8 dicembre 2015

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