Tanta voglia d'indipendenza

Il 2014 si annuncia come un anno che vedrà messa in discussione la tenuta di vari Stati del Vecchio Continente

24 Marzo 2014

Il Giornale

Carlo Lottieri

Direttore del dipartimento di Teoria politica

Argomenti / Teoria e scienze sociali

C’è uno spettro che si aggira per l’Europa, ma non è più quello del comunismo, che un secolo e mezzo fa veniva evocato da Marx ed Engels. Lo spettro è quello dell’indipendenza, ossia della crisi degli Stati nazionali.

Non è sorprendente che la Lega abbia raccolto le firme per chiedere che i veneti possano esprimersi sull’ipotesi di un Veneto indipendente. Al di là del carattere elettoralistico della cosa, e al di là del fatto che la Lega da tempo si occupa assai più di immigrati ed euro che dei temi indipendentistici, è un fatto che la «questione veneta» ormai esiste, dato che in Consiglio regionale da mesi è stato depositato (primo firmatario Stefano Valdegamberi, eletto nelle liste Udc) un progetto di referendum consultivo per l’indipendenza e che ovunque c’è un ribollire di iniziative volte a rivendicare il «diritto di votare».

Al di là delle vicende di casa nostra, un dato comunque è chiaro: sotto vari punti di vista il 2014 si annuncia come un anno che vedrà messa in discussione la tenuta di vari Stati del Vecchio Continente, dove la presenza di movimenti politici indipendentisti affidabili sta producendo risultati significativi. Le istituzioni che caratterizzano l’Europa sono figlie di un’epoca e una cultura scomparse da tempo. Nessuno è oggi in grado di trarre qualcosa di interessante dagli scritti di Giuseppe Mazzini, né è difendibile l’idea che esista una Nazione che trascende tutti noi, quasi fosse «oggettivamente riconoscibile». I miti ottocenteschi hanno fatto il loro tempo, senza considerare che gli Stati si trovano dinanzi a gravi difficoltà finanziarie. La delegittimazione delle retoriche nazionaliste coincide dunque con la crisi di bilanci pubblici dissestati.

Va aggiunto che si tratta ormai di un processo consolidato, se si considera che dei 49 Stati esistenti oggi in Europa ben 27 si sono definiti nel corso del Novecento, e quasi sempre a seguito di un processo di progressiva separazione. Nel 1901 non esistevano la Finlandia, l’Irlanda e la Norvegia, e neppure la Croazia, la Slovacchia o l’Estonia. La nascita di realtà istituzionali più piccole è ormai la norma, e non solo in Europa, anche in ragione del fatto che le entità istituzionali di minuscole dimensioni sono in linea di massima meglio amministrate, godendo di redditi più alti e una migliore qualità della vita.

Se la seconda metà del Novecento ha visto disgregarsi soprattutto le istituzioni socialiste, dall’Urss alla Jugoslavia, oggi stanno entrando in crisi gli Stati nazionali di stampo liberaldemocratico, che non possono facilmente negare alle varie popolazioni che li compongono la facoltà di votare, esprimendosi sul diritto a mantenere la bandiera attuale o averne un’altra.

Spinte centrifughe sono presenti un po’ ovunque. In Baviera qualche fermento indipendentista c’è da tempo e d’altra parte la Csu è un partito del tutto distinto dalla Cdu della signora Merkel. Un desiderio di autogoverno e indipendenza si trova in regioni francesi come la Corsica, la Savoia o la Bretagna, e in numerose aree italiane.

Le ultime elezioni sarde, ad esempio, hanno visto un importante risultato dei gruppi indipendentisti e solo il sistema elettorale adottato ha potuto oscurare tutto ciò. Spinte autenticamente indipendentiste sono poi sempre più visibili nel Tirolo meridionale, a Trieste e in altre aree: Sud incluso. Pieno di fermenti è pure il Veneto, come si è detto, ma qualcosa inizia a muoversi perfino in Lombardia: l’area più penalizzata al mondo a seguito della redistribuzione delle risorse, se si considera che una famiglia di quattro persone che lavora in questa regione perde più di 20 mila euro all’anno per il fatto di essere in Italia. Questo è il costo dell’unità e sempre più cittadini lombardi se ne stanno rendendo conto.
In Europa sono però soprattutto tre le aree veramente calde e da tanti punti di vista il 2014 potrebbe essere un anno cruciale. Si tratta di Fiandre, Scozia e Catalogna, e in ognuna di tali realtà vi sarà un passaggio politico cruciale. Le tre date da segnarsi sono il 25 maggio per quello che riguarda le Fiandre, il 18 settembre per quello che concerne la Scozia e il 9 novembre per la Catalogna.

FIANDRE: ELEZIONI PER DIRSI ADDIO
In Belgio, la scadenza politica è di carattere tradizionale, ed è anche possibile che nel suo insieme l’Europa poco si accorga di quello che succederà nella piccola monarchia posta al centro del continente. Non si tratta infatti di un referendum, ma semplicemente di un rinnovo degli organismi rappresentativi che per giunta avverrà in coincidenza con le elezioni europee. In quel giorno, infatti, i cittadini del Belgio non dovranno eleggere soltanto gli europarlamentari, ma anche rinnovare tutti gli organi del loro complesso (e assai barocco) sistema federale.

I sondaggi preannunciano un clamoroso successo del principale partito indipendentista fiammingo, l’N-VA (Nuova Alleanza Fiamminga), il cui progetto – nei fatti – porterebbe a dissolvere l’unità belga. Questo partito negli ultimi anni ha conosciuto un incremento elettorale sorprendente, conquistando anche la città di Anversa e diventando la prima formazione dell’intero Paese. Al posto dell’ordinamento attuale, si avrebbe una blanda confederazione composta da Fiandre e Vallonia: primo passo verso una dissoluzione del Belgio all’interno del quadro istituzionale europeo.

La situazione è insomma chiara. In qualche modo, ci si trova su un piano inclinato e anche se non si sa quale potrà essere la velocità del processo, pochi dubitano sull’esito. Tradizionalmente egemonizzato dalla parte francofona (fin dalla sua nascita, nel 1830), il Belgio è oggi caratterizzato da una forte maggioranza fiamminga e, soprattutto, da uno squilibrio economico che vede quanti parlano neerlandese economicamente penalizzati dal sistema redistributivo. Non può sorprendere il fatto che nel Belgio attuale la comunità vallona riceva più soldi di quanti non ne dia e che la comunità fiamminga malsopporti tutto ciò.

Di indipendenza nelle Fiandre si parla da molto tempo, ma mentre le formazioni che avevano mischiato al tema separatista varie questioni populiste (a partire dalla lotta all’immigrazione) non erano mai riuscite a valicare una certa soglia di consenso, con la fondazione di un movimento fiammingo su posizioni moderate, la N-VA, di centro-destra, gli esiti elettorali sono stati sempre più significativi.

Oggi il Belgio si appresta ad avere, dopo decenni di un sistema politico spaccato in due (con un partito socialista vallone e uno fiammingo, un partito liberale vallone e uno fiammingo, e via dicendo), il più forte partito della comunità maggioritaria ben determinato ad andarsene. È impossibile che questo non produca conseguenze.

SCOZIA: AUTONOMISTI DI SINISTRA
Assai diverso è il caso scozzese, dato che all’interno del quadro britannico la Scozia è una piccola realtà: molto meno importante, sul piano numerico e su quello economico, rispetto all’Inghilterra. Per giunta, l’attore principale del processo indipendentista in questo caso non si colloca sul centro-destra, ma sul centro-sinistra. Lo Scottish National Party di Alex Salmond è infatti un partito che vuole la separazione da Londra e che in larga misura interpreta tesi economiche latamente laburiste.

Un dato, però, rende straordinario il caso scozzese. Quale che possa essere l’esito, è formidabile che a Glasgow e a Edimburgo il prossimo 18 settembre si possa assistere a un pacifico recarsi alle urne di una popolazione chiamata a decidere se restare nel Regno Unito oppure dare vita a una Scozia indipendente. Come già per due volte avvenne in Québec, un tradizionale e anglosassone rispetto per la libertà ha indotto Londra a sottoscrivere un accordo con il governo scozzese affinché la questione separatista sia decisa con un semplice voto.

L’esito non è scontato. Sul piano economico, mentre nel caso belga non c’è dubbio in merito al fatto che l’unità penalizzi i fiamminghi, qui le cose sono diverse. Nonostante la guerra sui numeri e nonostante la questione del petrolio, estratto al largo delle coste della Scozia, è ragionevole pensare che quest’area – più povera di quella inglese – sia più beneficiata che penalizzata dal gioco redistributivo. Il che non è certo un buon motivo per non trarre beneficio dall’autogoverno e dalla competizione istituzionale: dal fatto, cioè, che una Scozia indipendente potrebbe darsi regole (in primis fiscali, sul modello dell’Irlanda) tali da permetterle un grande sviluppo, oltre che la tutela della propria identità storica e culturale.

CATALOGNA: VERSO LA SVOLTA
Il caso più interessante e per tanti aspetti cruciale, però, è quello catalano. Per più di una ragione. La Spagna è uno dei modelli storici dello Stato moderno e pure dello Stato nazionale. La rivendicazione catalana per giunta unisce ragioni economiche e culturali, ma deve fare i conti con il nazionalismo di Madrid.

Se l’indipendentismo fiammingo è più di destra e quello scozzese è più di sinistra, a Barcellona la richiesta dell’indipendenza abbraccia per intero lo spettro politico. La formazione forse più determinata è l’Esquerra Republicana de Catalunya (di sinistra), ma una posizione più centrale occupa Convergencia i Unió du Artur Mas (di centro-destra), tradizionalmente autonomista e tuttavia ora decisa a fare della Catalogna uno Stato indipendente all’interno dell’Europa.

Il guaio è che tra Madrid e Barcellona è in atto un braccio di ferro. Mentre David Cameron e Alex Salmond non hanno avuto difficoltà a sottoscrivere un accordo che fissasse la data e il contenuto del referendum, non esiste un’analoga intesa tra Mas, che è a capo del governo catalano, e il premier spagnolo Mariano Rajoy. In gioco non c’è solo la Catalogna, d’altra parte, ma la tenuta spagnola nel suo insieme. Se i catalani se ne vanno, immediatamente dopo sono pronti ad andarsene i baschi, ma altre spinte centrifughe ci sono nel resto del Paese. Sarebbe lo stesso Stato nazionale a entrare in crisi. Questo significa che potenzialmente a essere in discussione è larga parte d’Europa: a partire dall’Italia.

La determinazione catalana è comunque ammirevole. In maniera unilaterale, la Generalitat – il parlamento dei catalani – ha fissato per il 9 novembre la data del referendum, che avrà due quesiti: il primo prevede la scelta tra l’appartenenza della Catalogna alla Spagna alle medesime condizioni attuali oppure l’autoproclamazione della Catalogna stessa quale «Stato»; in caso di vittoria di quest’ultima opzione, il secondo quesito prevede la scelta tra la permanenza del novello «Stato di Catalogna» all’interno di una Spagna che dovrebbe necessariamente ridefinirsi in forma confederale – qualcosa di simile a quanto progettano le Fiandre, come abbiamo visto in precedenza – oppure la piena indipendenza. I sondaggi sono piuttosto allineati nel prospettare una vittoria per entrambi i quesiti e, quale conseguenza, il distacco di Barcellona da Madrid. Ma dai palazzi madrileni faranno di tutto perché i catalani non possano votare.

La scelta della data è interessante. Mas ha posto il voto catalano dopo quello scozzese, dall’esito incerto ma che sicuramente avrà luogo, e anche dopo la Diada dell’11 settembre: la grande festa popolare che nel 2012 e nel 2013 ha visto nelle strade più di un milione di persone e che nel 2014 coinciderà con il terzo centenario dell’invasione spagnola e della perdita della libertà da parte dei catalani. Il 9 novembre, data prevista per la consultazione, ricorrerà per giunta un anniversario ancora più significativo: un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino. A significare che il referendum vuole inserirsi nel percorso storico di liberazione delle comunità politiche continentali dall’oppressione degli stati nazionali ottocenteschi e delle loro degenerazioni tiranniche novecentesche.

L’UNIONE EUROPEA E LO STATUS QUO
Entro questo scenario generale, un ruolo importante lo stanno giocando le istituzioni europee. E se in linea di massima i movimenti indipendentisti sono (ed è comprensibile) tendenzialmente favorevoli all’Europa, in quanto ritengono in modo molto pragmatico che in tal modo il processo di separazione possa apparire meno traumatico, assai particolare è l’atteggiamento di Bruxelles, che sta in tutti i modi provando a impedire tale evoluzione. Nei giorni scorsi, non a caso, il presidente della Commissione Barroso ha sostenuto che nell’ipotesi di un’indipendenza scozzese non è pensabile che il nuovo Paese possa automaticamente essere già membro dell’Unione. Dovrà fare domanda e seguire la procedura ordinaria.

Come mai tutto questo? È semplice. La disgregazione degli Stati nazionali va esattamente in direzione opposta rispetto al processo di unificazione europea, ma soprattutto è chiaro che oggi l’Europa è un cartello di Stati che sono portati a sostenersi vicendevolmente. Il processo disgregativo delle nazioni ottocentesche, se dovesse avesse avere luogo, dissolverebbe gli attori stessi che hanno dato vita all’Unione. Gli euro-burocrati temono più di ogni altra cosa che il potere si localizzi e che le varie regioni e città si mettano a competere. Il loro sogno è un continente unificato sotto un unico potere tecnocratico. Faranno tutto il possibile per sbarrare la strada a fiamminghi, scozzesi e catalani, ma anche a tutti quanti si possano mettere nella loro scia. Ecco perché oggi la battaglia di libertà contro il centralismo europeo si combatte sostenendo e replicando i percorsi di decostruzione degli Stati nazionali messi in atto nelle Fiandre, in Scozia e in Catalogna. Quanti governano, ad esempio, regioni come il Veneto o la Lombardia (fortemente penalizzate dalla redistribuzione delle risorse attuata da governi centrali) dovrebbero agire di conseguenza. Non c’è tempo da perdere.

Da Il Giornale, 22 marzo 2014

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