25 Luglio 2022
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
La «global minimum tax» appartiene a quei provvedimenti benedetti da un apparente consenso universale. In Europa, l’idea di un’imposta minima del 15% sui profitti delle imprese multinazionali piace proprio a tutti. Alla sinistra, per cui le multinazionali sono corsari del welfare, che in nome del profitto vanno a produrre dove i diritti sociali sono meno tutelati. Ma anche alla destra, che difende il «piccolo» capitalismo dalle grinfie del «grande» e negli ultimi anni ha preso di mira piattaforme e giganti del web.
La «global minimum tax» faceva parte di un accordo fiscale globale supervisionato dall’Ocse. L’accordo si regge su due pilastri. Il primo mira a consentire ai governi di tassare le imprese digitali che vendono servizi in un Paese, ma che non vi hanno una presenza fisica e che quindi fin qui erano sfuggite al fisco. Non è che queste ultime non siano tassate: lo sono nel Paese in cui hanno sede.
Il secondo pilastro era appunto l’imposta minima globale del 15%. Non solo, quindi, un’impresa non può operare (vendere beni e servizi) in un Paese senza essere tassata da quello Stato, dal momento che ha sede altrove. Ma comunque deve essere tassata «almeno» in una certa misura.
Di recente l’Ocse ha pubblicato alcuni nuovi report sulla «global minimum tax» e annunciato di aver fatto dei passi in avanti nella messa a fuoco del primo punto, cioè del meccanismo per consentire una certa «ridistribuzione fiscale» fra il Paese in cui un’impresa ha sede e quella in cui, senza esservi stabilita, vende beni o servizi. Ma l’accordo fra 140 Paesi avrebbe dovuto essere messo a punto entro il 2022 e invece ora lo stesso direttore dell’Ocse, Mathias Cormann, commenta che già farcela per il 2023 sarebbe un successo.
Tutti sembravano intenzionati a «fare presto». Era un modo per chiudere l’era Trump, durante la quale alcuni Paesi europei avevano cominciato a fare esperimenti sulla tassazione delle piattaforme (pensate all’annoso dibattito sulla «web tax») e gli Stati Uniti avevano risposto minacciando nuovi dazi. Per quanto poco amato dai giganti della Silicon Valley, Trump aveva applicato il principio «civis romanus sum» e provato a difendere, a modo suo, l’interesse delle aziende statunitensi a qualsiasi costo.
Sotto il profilo politico, la «global minimum tax» era la creatura dell’amministrazione Biden: una risposta «multilaterale», agli antipodi rispetto alle iniziative muscolari del precedente inquilino della Casa Bianca. Per parte sua, Biden pareva determinato ad alzare l’imposta sul reddito d’impresa dal 21 al 28 per cento: una misura in linea con le abbondanti sollecitazioni della sinistra democratica. Ma anche una mossa azzardata. Il valore medio Ocse è del 24 per cento ed è bene ricordare che gli Usa hanno avuto tradizionalmente un’alta tassazione sul reddito d’impresa, sino a che è stata sforbiciata dall’amministrazione Trump.
La vera domanda è se Biden avrà la forza di pilotare l’accordo nel 2023. Negli Stati Uniti andrà sottoposto al voto delle Camere ed è probabile che i Repubblicani riescano a riguadagnare il controllo di almeno uno dei due rami del Parlamento. Questo basterebbe per rendere loro possibile sabotare la «global minimum tax».
I tempi più rarefatti rispetto alle aspettative tradiscono, ovviamente, la complessità del dibattito tecnico. Ma probabilmente rivelano anche che sbarazzarsi della concorrenza fiscale è meno semplice di quanto appaia. Il valore del 15% sembra assai basso: in Irlanda, dove l’imposta sul reddito d’impresa è bassa, è del 12,5%, si tratterebbe dunque anche in quel caso di un ritocco sostenibile.
Tuttavia, non si tratta soltanto di aumentare le imposte. Se fossero convinti del principio, tutti gli Stati coinvolti nell’accordo potrebbero muoversi ciascuno per suo conto, convergendo su una certa aliquota.
Questo non avviene per due motivi. Il primo è tecnico: come dicevamo, si fa presto a dire tassa ma non necessariamente il significato della parola è il medesimo, per la stessa impresa e gli stessi beni o servizi, in due giurisdizioni diverse. Il secondo è politico: la «global minimum tax» impone la rinuncia alla leva della concorrenza fiscale.
Questa è da anni, soprattutto per gli Stati europei, quelli nei quali la tassazione è più alta, uno spauracchio. Accusiamo chi fa «dumping fiscale», ovvero chi agisce sulla leva fiscale per attrarre investimenti, di mettere a rischio la sostenibilità dei nostri Stati sociali, sottraendo contribuenti a Paesi dove le imposte sono più elevate perché garantiscono più «diritti».
Giova ricordare che persino un Paese come il nostro tentò di attrarre contribuenti (persone fisiche) ad alto reddito con una imposta sul reddito «forfettaria», molto conveniente. I sistemi fiscali sono vestiti d’arlecchino perché Stati che chiedono molto ad alcuni invece chiedono molto poco ad altri o viceversa.
Non è così semplice metterci le mani. E non ne vale nemmeno la pena. Nessuno di noi sa quale sia il regime fiscale perfetto, soprattutto quando discutiamo di beni e servizi nuovi come quelli offerti dall’economia digitale. Un processo di tentativi ed errori richiede concorrenza fiscale: per imparare dagli esperimenti andati bene, e anche da quelli andati male.
da L’Economia del Corriere della Sera, 25 luglio 2022