22 Agosto 2022
Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
Da anni Techetecheté è il programma più visto del palinsesto estivo. Pescando nel ricco archivio della Rai, questa striscia quotidiana consola gli spettatori con il tepore zuccheroso della nostalgia. In campagna elettorale, i partiti sembrano ispirarsi a quel modello. Rischiamo un autunno con energia e riscaldamento razionati. Veniamo da un’esperienza di pandemia e lockdown di cui porteremo a lungo i segni. Ci viene quotidianamente spiegato che dobbiamo cercare di spendere i fondi del Pnrr, e di farlo nei tempi concordati se non limitando sprechi e spese inutili.
Eppure la campagna elettorale è per ora un juke box di grandi classici: flat tax, patrimoniale, dote giovani, presidenzialismo, eccetera. I nostri politici non saranno molto creativi, ma l’eterno ritorno di alcune promesse non va preso sotto gamba: da una parte, segnala che quelle promesse non sono mai state mantenute (infatti restano attuali). Dall’altra, se esse hanno ancora presa è perché quei problemi non sono stati risolti nel corso degli anni, fra una elezione e l’altra semplicemente si smette di parlarne. Questo è vero soprattutto in campo fiscale. La proposta del centrodestra di una flat tax, ovvero di un’imposta ad aliquota unica, viene facilmente liquidata come una posticcia reminiscenza reaganiana. Nel 1994, Forza Italia prometteva già una semplificazione del sistema fiscale (da 200 a 10 imposte) e una aliquota unica «al 30%». Nella legislatura del centrodestra, il governo fece approvare una delega (2004) che avrebbe dovuto portare a due soli scaglioni dell’imposta sul reddito, 23 e 33%. Nell’ultima campagna elettorale (2018), la Lega proponeva, come fa ora, una flat tax al 15%, mentre Forza Italia si fermava su un valore più alto, il 23% del reddito.
Il guaio è che la pressione fiscale pesava per il 40% del Pil nel 1994, quando il Cavaliere propose per la prima volta il passaggio a una aliquota unica; era scesa, di poco, al 39,5% nel 2001 e nel 2021 è stata del 43,5%. Se dovessimo ragionare sul numero dei tributi, difficilmente avremmo l’impressione di un trentennio di grandi semplificazioni.
In compenso, il sistema fiscale ha una sua fisionomia che tutti sappiamo essere problematica ma a cui non mette mano nessuno. Anzitutto, è molto oneroso per chi lavora: come ricorda un rapporto della Commissione finanze della Camera, «l’aliquota implicita di tassazione sul lavoro, che include anche i contributi sociali versati dal datore e dal lavoratore, è stata pari nel 2018 al 42,7 per cento (la terza più alta), a fronte di una media del 38,6 per cento per l’area dell’euro».
Contro l’ipotesi di una aliquota proporzionale, in molti sbandierano il requisito costituzionale della progressività del nostro Fisco: ma più che progressivo il sistema è opaco. Non è detto che due persone che hanno lo stesso reddito paghino le stesse imposte, dipende da come ciascuno dei due è capace di navigare il vasto mare di detrazioni e deduzioni. Le «spese fiscali» in Italia contavano, nel 2020, di 602 voci. Più in generale, gli interventi che sono stati fatti, negli ultimi vent’anni, vanno tutti nella direzione di definire dei «regimi di eccezione», che coincidono con attività che si ritiene auspicabile vengano intraprese, e dunque coi gruppi sociali che le presidiano.
L’imposta ad aliquota unica non basta, è stato detto più volte, a «semplificare» il sistema. È vero. Ma essa rappresenterebbe quello che non si è fatto in questi anni: cioè una riforma ambiziosa, del tipo che in qualche modo costringe a mettere ordine. È probabile che la moltiplicazione delle spese fiscali sia un effetto collaterale inevitabile della nostra democrazia. Rappresenta il tentativo della classe politica di rispondere a domande specifiche, che le vengono sottoposte da questo o quel gruppo d’interesse. Proprio per questo, però, varrebbe la pena intraprendere una drastica revisione di quelle che ci sono: ne verranno delle altre, lo sappiamo, ma intanto facciamo pulizia.
Il rischio della campagna elettorale Techetecheté è confondere le cose di cui si parla da anni con quelle che effettivamente sono state fatte, e alla fine indurci a cambiare canale, un po’ stufi di rivedere sempre le stesse scene. Se il centrodestra parla di nuovo della flat tax, il centrosinistra di nuovo le oppone i medesimi argomenti di cinque anni fa. Sarebbe incostituzionale: in realtà, non è vero, è il sistema fiscale nel suo complesso che deve essere progressivo non l’aliquota della singola imposta (altrimenti sarebbero incostituzionali anche la cedolare secca o l’imposta sulle plusvalenze finanziarie). È iniqua. Non si può fare. Ce l’ha l’Ungheria di Orbán (ma anche la Lituania e la Georgia antiputiniane e, per la verità, la Bolivia di Evo Morales).
In questa cacofonia di vecchie canzoni, si rischia di perdere di vista il punto. La pressione fiscale in Italia è ancora troppo alta oppure no? Lo è nonostante l’ampio ricorso al deficit di bilancio che sposta le tasse sulle spalle dei nostri figli? Come fare per non ritrovarci di nuovo, fra cinque anni, con gli stessi problemi e le stesse promesse?
dal Corriere della Sera, 22 agosto 2022