Anche nel 2022, nonostante la frenata dell’economia, le emissioni di CO2 sono cresciute in misura significativa, nonostante gli immensi sforzi e risorse che, da anni, gli Stati membri investono nella decarbonizzazione. Dietro ai rialzi c’è l’effetto della crisi energetica esplosa dopo l’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022, e questo deve spingere a interrogarsi sul futuro della transizione ecologica. Formalmente nessuno mette in dubbio gli obiettivi di medio e lungo termine, cioè il taglio delle emissioni del 55% al di sotto dei livelli del 1990 entro il 2030 e la neutralità carbonica entro il 2050. Anzi, le istituzioni europee tendono a rilanciare: sia il piano Fit for 55 sia quello RePowerEu, risposta comune all’inflazione energetica, rendono i target formali su decarbonizzazione e rinnovabili ancora più ambiziosi. Ci sono, però, indicazioni del fatto che la realtà si sta muovendo in tutt’altra direzione.
Che la risposta immediata alla scarsità del gas passi per la ripresa dell’utilizzo del carbone può apparire (ed è) una scelta obbligata, quanto meno per contenere i prezzi dell’energia elettrica e ridurre il rischio di blackout. Ma essa desterebbe meno preoccupazione se si trattasse di una svolta isolata. Invece non lo è. Perché la stessa disponibilità a riaccendere il carbone annacquando i precedenti impegni a dismetterlo per esempio, in Italia, avremmo dovuto chiudere gli impianti entro il 2025 non la si è vista nei confronti di una fonte priva di emissioni come il nucleare, come dimostrano le scelte di due Paesi importanti come la Germania e il Belgio, che hanno proseguito i programmi di chiusura delle loro centrali nucleari. Tutti gli Stati membri dell’Unione europea hanno, poi, messo sul piatto ingenti risorse finanziarie per ridurre i prezzi dell’energia.
L’Italia finora ha speso circa 60 miliardi di euro, il 3,3% del Pil, a tal fine. La maggior parte delle altre nazioni europee hanno stanziato tra il 2 e il 3% del Pil e altri denari saranno impiegati nel futuro. La Germania ha varato un maxi-programma da 200 miliardi (5% del Pil) per il 2023/24 e il Regno Unito addirittura quasi il 7% del Pil. Questi soldi non servono solo a erogare aiuti mirati alle famiglie a basso reddito o alle imprese in condizione di difficoltà, ma sono in gran parte destinati a beneficiare “a pioggia” l’intera società.
Possono esserci molte buone ragioni per farlo, ma ci sono anche due enormi motivazioni per evitarlo o, quanto meno, moderarsi. La prima ha a che fare con la crisi in corso: qualunque misura finalizzata a sopprimere il segnale di prezzo equivale a un incentivo al consumo, rischiando di aggravare la situazione anziché aiutare a tenerla sotto controllo. Ma c’è un altro aspetto rilevante. Alla Cop26 di Glasgow (31 ottobre-12 novembre 2021), i leader globali firmarono una dichiarazione congiunta in cui si impegnavano a ridurre i sussidi ambientalmente dannosi, cioè quelle politiche fiscali che direttamente o indirettamente incentivano l’impiego delle fonti fossili. A quanto precede si aggiunge un ulteriore e meno ovvio elemento.
Gli ultimi due anni sono stati estremamente difficili non solo per la società e l’economia in generale, ma in particolare per gli operatori del mercato dell’energia. Alcuni hanno certamente fatto profitti stellari, ma la gran parte degli operatori del mercato stanno attraversando una fase molto difficile. L’incremento così repentino e marcato non solo del livello dei prezzi, ma anche della volatilità, li espone a oneri finanziari quasi insostenibili e li mette nella condizione di non potersi assumere il rischio di contrattualizzare ogni cliente, lasciando molte imprese prive di fornitore. In questo contesto, riprendere la strada della transizione dovrà inevitabilmente fare i conti con due enormi scogli da superare. Il primo sarà il riassorbimento delle misure eccezionali che, almeno in parte, contraddicono gli obiettivi della decarbonizzazione, mentre altre, ovviamente, sono invece coerenti con essi: è il caso delle semplificazioni per le fonti rinnovabili. Il secondo consiste nella demografia delle imprese energetiche, che sono strumenti e attori fondamentali della transizione, ma che potrebbero essere decimati alla fine di questo periodo.
Si tratta, quindi, di capire come adeguare non tanto gli obiettivi di lungo termine delle politiche per la transizione, quanto gli strumenti e le modalità attuative. Finora l’Europa ha navigato non senza contraddizioni tra una politica energetica tendenzialmente ispirata ai principi della libera concorrenza e una politica ambientale molto più interventistiche, da un lato si percorreva la strada della separazione verticale degli ex monopolisti, della competizione nel mercato e della spinta verso meccanismi di pricing tali da riflettere le reali condizioni di domanda e offerta. E dall’altro lato, si introducevano però obblighi sempre più dettagliati non solo sulla riduzione delle emissioni, ma anche e soprattutto sugli strumenti da adottare per raggiungerla: quali e quante rinnovabili, quali e quante tecnologie per l’efficienza energetica, che tipo di carburanti per i trasporti, e così via.
Il risultato di questa spinta contraddittoria è stata una regolamentazione del mercato generalmente orientata alla promozione della concorrenza, ma anche una fiscalità energetica di segno del tutto opposto. Analizzando l’effetto ambientale delle tasse e dei sussidi all’energia nei 27 Stati membri dell’Unione europea e nel Regno Unito, si trova la totale assenza di coerenza tra gli obiettivi dichiarati (la decarbonizzazione) e le conseguenze dell’intreccio tra tasse e sussidi. Di conseguenza, le contraddizioni preesistenti si sommano alle conseguenze degli interventi “transitori”. È un bene che l’Europa non abbia finora mai messo realmente in discussione gli obiettivi ambientali. Ma è anche essenziale una riflessione critica sul modo in cui essi sono stati perseguiti finora, avallando e anzi amplificando politiche incoerenti come appunto l’utilizzo della fiscalità energetica. E anche riconoscendo che l’attuale crisi è, in parte, figlia di una perversione nelle politiche ambientali che, per esempio, hanno spesso confuso l’obiettivo (desiderabile) di ridurre la domanda di combustibili fossili con quello di abbandonarne la produzione. Cosa che ci ha portati a una crescente dipendenza non tanto dall’estero, quanto da un numero ristretto di Paesi tra cui, ovviamente, la Russia.
Insomma: è essenziale rimettere la decarbonizzazione al centro della nostra politica energetica, ma non sarà facile farlo dopo che, travolti dall’emergenza e forse anche dal panico, abbiamo messo in discussione l’intero ordine energetico che ci eravamo dati.
da L’Arena, 9 novembre 2023