Il motivo per cui fare le riforme è difficile è convincere persone e imprese ad accettare il cambiamento.
Il principale motivo per cui fare le riforme è difficile è gestire il passaggio dal vecchio al nuovo. E una difficoltà sia politica che tecnica. Dal punto di vista politico, bisogna convincere persone e imprese ad accettare il cambiamento. In materia concorrenziale, a dover essere convinti sono i cosiddetti incumbent, cioè coloro che sono già entrati in uno specifico mercato e beneficiano di condizioni regolatorie che impediscono o limitano l’ingresso di potenziali concorrenti. Dal punto di vista tecnico, invece, la transizione è una fase molto delicata che serve a passare da una situazione vecchia a una nuova senza che il passaggio porti repentine condizioni di svantaggio a chi, finora, ha agito con le aspettative che le regole non sarebbero cambiate, magari solo perché così avevano promesso coloro che si sono negli anni avvicendati al governo. Da un lato quindi occorre far comprendere ed accettare le ragioni del cambiamento. Dall’altro occorre che il cambiamento sia guidato nella fase transitoria, in maniera tale che non vi siano pregiudizi che non si sarebbero altrimenti avuti.
L’infinita questione delle concessioni balneari è un chiaro esempio della difficoltà di gestire la transizione per miopia della classe politica, prima ancora che per oltranzismo del settore. La sicumera con cui i partiti attualmente al governo hanno in questi anni tranquillizzato i concessionari che l’applicazione della direttiva Bolkestein sarebbe dovuta passare sui loro corpi ha portato a una dannosa perdita di tempo. Giorgia Meloni, pochi mesi prima di diventare presidente del Consiglio, parlava in proposito di esproprio delle aziende. Meglio sarebbe stato accompagnarli verso una transizione ordinata. Ciò avrebbe comportato, dal punto di vista politico, far comprendere loro due questioni basilari: che le gare sono un metodo sano di gestire la concorrenza nei settori regolati; come arrivare pronti alle procedure di rinnovo. Dal punto di vista giuridico, avrebbe significato la necessità di immaginare per tempo delle modalità di accompagnamento dall’invalso e illegittimo sistema delle proroghe a quello delle gare.
Il tempo sprecato non si può recuperare. Data la retorica con cui è stata condotta la campagna contro la «maledetta Bolkestein», come l’ha chiamata pochi giorni fa Matteo Salvini, è anche difficile ormai far accettare agli attuali concessionari le buone ragioni della fine delle proroghe. Invece, si è ancora in tempo per gestire con buone regole la transizione, cioè per costruire un passaggio dal meccanismo delle continue proroghe a quello del rinnovo con gara che possa portare gli attuali concessionari a competere in maniera equa con i potenziali entranti.
Il governo sta lavorando con riluttanza a un’ipotesi di riordino del settore che, a quanto si legge dalle anticipazioni, continua a basarsi su una serie di rinvii e proroghe, che vanno dal 2025 al 2027, in attesa di una nuova, ulteriore mappatura delle coste. Inoltre, secondo quanto riferito dal ministro Salvini il piano si basa sulla prelazione a favore degli attuali concessionari e sull’indennizzo a carico dei nuovi, qualora i vecchi non riescano ad aggiudicarsi il rinnovo.
Nessuno di questi tre elementi riflette un buon modo di gestire la transizione, dal punto di vista tecnico e legislativo. Non le ulteriori proroghe, che servono – più che a comprare tempo – a vendere una soluzione ormai destinata a infrangersi contro gli scogli delle sentenze amministrative e delle decisioni della Commissione europea. Non l’ipotesi della prelazione, che si scontra con l’acclarata illegittimità di un diritto di insistenza che ha lo stesso effetto di un rinnovo automatico delle concessioni. L’indennizzo richiede invece una riflessione più articolata. Se dovesse riflettere una sorta di automatismo per il solo fatto di perdere la concessione, non servirebbe a tutelare dai costi non ammortizzati e dalla perdita di ritorno degli investimenti. Avrebbe invece il senso, facilmente contestabile, di una sorta di equo risarcimento solo per aver perso il rinnovo.
Una buona transizione, si diceva, è quella che gestisce il passaggio senza che vi siano indebiti svantaggi per i «perdenti». Molti degli attuali concessionari, in parte anche perché illusi all’idea di essere ormai proprietari di fatto dell’area in concessione, hanno negli anni fatto investimenti a lungo termine, apportato migliorie di cui potranno beneficiari eventuali nuovi entranti, insomma speso soldi per opere il cui costo non è necessariamente rientrato né i benefici necessariamente ottenuti. Se le gare dovessero andare male per loro, quel costo non sarebbe ripagato né vi sarebbe un ritorno di investimento, magari significativo, fatto proprio confidando nel sistema delle proroghe. In questo caso, avrebbe senso un indennizzo, calcolato sul valore residuo degli investimenti, qualora vi fosse.
Su questi elementi si gioca la differenza tra una finta e una seria proposta di riordino del settore. Per essere credibile, la proposta dovrà tenere in equilibrio le esigenze di tutela della concorrenza (al momento inesistente) con quelle di legittimo affidamento di chi, protetto all’ombra dei facili slogan contro la Bolkestein, ha lavorato e dato lavoro, ha investito e speso in attività erroneamente ritenute come concesse per sempre. Un tale equilibrio si dovrà, se si vorrà, costruire sui dettagli, a partire dalle modalità transitorie di avvio delle gare, e poi sulle clausole sociali e occupazionali, sui criteri che dovranno guidare gli enti nella predisposizione dei bandi, sui metodi di calcolo del valore residuale degli investimenti.
Un governo che avesse un interesse genuino, e non solo elettorale, per le ragioni dei balneari dovrebbe ragionare su questi dettagli, più che menare il can per l’aia delle proroghe e delle mappature. Sono i primi, infatti, che fanno la differenza tra una buona e una cattiva riforma, che si misura sulla capacità di guardare avanti, senza lasciare indietro gli eventuali perdenti.