4 Dicembre 2023
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Fino ad alcuni anni fa, erano pochissimi i film dedicati a delle storie d’impresa. Il capitalismo poteva rivelarsi lo sfondo ideale per modernizzare una storia alla Macbeth, come fece Oliver Stone in Wall Street. Ma le dinamiche dell’economia di mercato, spesso distorte dallo sguardo caleidoscopico dei registi, servivano per raccontare passioni senza tempo: lussuria, cupidigia, avidità.
Nel cinema americano non sono mai mancate occasionali celebrazioni dell’eroismo dell’imprenditore che ce la fa contro tutti e tutto e qualche volta l’acume per gli affari è persino apparso come un tratto «umano», nel senso di non necessariamente incompatibile con l’umanità dei protagonisti. In Sabrina di Billy Wilder, Linus Larrabbee (Humphrey Bogart) regala al fratello David (Greg Kinnear) una lezione magistrale su impresa e motivo del profitto, forse non a caso espunta dal remake con Harrison Ford.
È solo di recente però che Hollywood è parso considerare l’impresa privata come qualcosa che valga la pena raccontare in sé e per sé. Nel 2023, l’hanno fatto almeno tre film: Tetris di Jon S. Baird, Air di Ben Affleck e Blackberry di Matt Johnson, quest’ultimo appena uscito su Netflix.
Air è per certi versi il più notevole. Il cast, certo, a cominciare da Matt Damon. Soprattutto, però, si tratta del racconto di un prodotto, le AirJordan della Nike, che prescinde totalmente da ogni intreccio di trame secondarie in cui prevalgano amore o gelosia, a scapito della vicenda imprenditoriale. Essa è centrale, nelle sue dimensioni anche legali: il grande salto del sottotitolo italiano è quello dell’accordo siglato fra Jordan e la Nike, disponibile a riconoscere al primo una percentuale per ogni paio di scarpe vendute. Air è una lezione di storia d’impresa, recitata benissimo e liberata da ogni romanticismo.
Tetris è l’avventura rocambolesca del videogioco che ha fatto la fortuna del GameBoy di Nintendo e di vicende di proprietà intellettuale che se non valgono una spy story poco ci manca. Emerge chiaramente una frattura fra coloro che lavorano con passione tecnologica e spirito imprenditoriale a un progetto, e chi pensa solo ad appropriarsi di una rendita. C’è il lieto fine.
L’ultimo uscito, Blackberry, andrebbe mostrato agli studenti per spiegare loro che cos’è la «distruzione creativa». È particolarmente sorprendente perché il canovaccio si presterebbe a uno sviluppo abbastanza ricorrente sul grande schermo. Da una parte c’è un ingegnere-imprenditore che mette tutto sé stesso nel prodotto che sta sviluppando, dall’altra un manager con Mba che di tecnologia capisce nulla ma trasforma la misconosciuta RIM in una macchina da soldi.
Geek vs suit, tipi strani contro giacche, queste ultime inevitabilmente rapaci, i primi tanto sgangherati quanto idealisti. E invece Matt Johnson racconta come gli uni abbiano bisogno delle altre: non c’è tecnologia la più straordinaria che possa andare da qualche parte se non trova a sostenerla una struttura produttiva, che metta un po’ d’ordine nella sregolatezza che va assieme al genio.
Siccome ogni storia di solito ha i suoi buoni e i suoi cattivi, capita di rado di ascoltare un racconto spassionato, nel quale si accetti che l’intuizione che poteva fare la fortuna di un certo prodotto in un certo momento poi lascia spazio ad altre. Il Blackberry è stato un prodotto geniale, il primo device che ci abbia fatto davvero percepire il potenziale della tecnologia mobile. Com’è noto, è stato la vittima più illustre dell’iPhone e di un altro salto tecnologico. Blackberry ci consentiva di portarci in tasca l’ufficio, con gli smartphone ci portiamo appresso una cinepresa, la nostra videoteca, la sala giochi e, sì, se proprio ci serve, l’ufficio. Aver intercettato una domanda inespressa ieri non significa essersi guadagnati il monopolio del gradimento dei consumatori. E neppure saperne intuire i desideri perpetuamente.
Al cinema, nelle pagine di un romanzo, persino sui quotidiani è più facile dare la colpa a qualcuno che accorgersi di ciò che pure sarebbe ovvio: il mondo è pieno di persone intelligenti e creative, non c’è impresa che possa schivare tutte le minacce che le vengono da cervelli più giovani e frizzanti, variamente organizzati attraverso questa o quella azienda.
Blackberry, nel senso del film, mostra il mondo dei «tipi strani», l’industria tecnologica, enfatizzando i vantaggi e gli svantaggi delle bizzarrie e ci presenta con sorprendente umanità (slanci generosi, distrazioni, difetti) il management di un’impresa che ha segnato il suo tempo. Vedremo col tempo se questi film indicano una nuova tendenza o sono episodi a sé.
Il punto non è offrire un racconto eroico di questa o quella avventura imprenditoriale, trasformando Steve Jobs (o Elon Musk o Mark Zuckerberg) in un Achille moderno. Il punto è se l’industria dell’intrattenimento comincia a trovare qualcosa di interessante «di per sé» in vicende che riguardano prodotti, beni e servizi, e nel ricostruirne il percorso, le catene di cooperazione che trasformano le idee in cose, le intuizioni, gli errori e semplicemente le circostanze che forgiano il successo imprenditoriale.
La fame di contenuti delle piattaforme potrebbe aiutare e così pure il fatto che la storia che conduce all’affermarsi di un panino o di un nuovo tipo di indumento non sarà una grande avventura ma è interessante. I grandi capitani d’industria con tutta probabilità non sono Bruce Wayne ma non per questo la loro non è una storia da raccontare.
da L’Economia del Corriere della Sera, 4 dicembre 2023