In un momento in cui il populismo tende a negare «il ruolo delle élite e persino dell’elaborazione concettuale la funzione dei think tank è ancora più importante che in passato». Franco Debenedetti è il presidente dell’Istituto Bruno Leoni, uno dei pensatoi italiani che compare regolarmente nelle classifiche internazionali, e di primo impulso lega la ricognizione sullo stato di salute dei think tank a una valutazione più generale del momento storico che viviamo. «In fondo — continua Debenedetti — il ruolo che hanno è quello di aggregare i dati e di elaborarli così come i giornali invece li disaggregano su base quotidiana». Lo spunto per discutere ruolo e valore dei think tank viene dalla classifica mondiale pubblicata da James McGann dell’Università di Pennsylvania che mette in fila i principali pensatoi di tutto il mondo. McGann è considerato in materia un numero uno e il ranking che elabora è tenuto in grande considerazione. Poi, come è giusto che sia, di classifiche non ce n’è una sola e le singole posizioni assegnate si prestano a valutazioni differenti e a giudizi contrari.
La prevalenza americana
Commenta Mattia Diletti, docente alla Sapienza di Roma e autore di un libro sui think tank pubblicato dal Mulino: «Le classifiche sono utili e in questo caso dimostrano l’assoluto predominio del mondo anglosassone. Non me ne stupisco: i think tank americani e inglesi sono molto ricchi, ben organizzati e vantano una tradizione lunga un secolo. Ma sono anche i più veloci a fare innovazione di prodotto». La loro forza è basata sul sostegno delle corporation interessate a sviluppare una visione di sistema ed è questo retroterra, secondo Diletti, che alla fine fa la vera differenza (con l’Italia e non solo). Meno scontato è invece l’incremento del numero dei think tank francesi perché la tradizione delle élite parigine è assai differente. Il dibattito delle idee è stato sempre monopolizzato dalla grandi scuole e dai cenacoli informali e ora invece «sembrano adottare il format anglosassone». Sarà interessante vedere come questa linea di tendenza si rafforzerà con la presidenza Macron e con il carico di aspettative di rinnovamento (e di protagonismo francese) che si porta dietro, mentre vale la pena sottolineare come Donald Trump abbia rotto il legame storico che c’era tra le nuove amministrazioni e i think tank. Dovendo un nuovo presidente nominare con lo spoil system circa 2 mila posizioni, la Casa Bianca finiva per attingere dai pensatoi. Ora non più. Infine una novità da sottolineare con forza è quella rappresentata dai think tank cinesi che svolgono una funzione del tutto particolare. «Sono una zona franca delle idee, invitano gli esperti stranieri persino nelle scuole di partito e hanno il permesso di discutere e di raccontare in libertà – commenta Diletti – Danno vita una sorta di diplomazia parallela».
E gli italiani? Proprio Diletti sta curando per la seconda volta un censimento dei think tank italiani, il primo era uscito nel 2012. Il nuovo conteggio fa segnare un aumento quantitativo («siamo a quota 118, più dieci rispetto a cinque anni fa») ma una riduzione dei budget medi a 800 mila euro. Il più ricco incassa circa 5 miliardi, il più povero non arriva a centomila euro.
Chi finanzia (poco) gli italiani
«La debolezza dei nostri pensatoi dipende innanzitutto dalla mancanza tra gli attori economici di una visione di sistema-Paese che li rende indisponibili a finanziare iniziative come queste, non ne colgono il valore». Si può aggiungere che quest’amnesia in fondo è figlia del restringimento del numero delle grandi imprese e l’avanzare di un nuovo soggetto, la multinazionale tascabile, non interessato per ora ad avere visioni di lungo periodo quanto strumenti operativi per entrare nei mercati stranieri meno conosciuti. Tornando alla classifica di McGann, il professor Diletti mette in evidenza come la supremazia italiana di Ispi e Iai non sia casuale ma rimandi alla tradizione delle scuole di diplomazia e alle necessità legate all’elaborazione della politica estera. «Si tratta di due organizzazioni che dopo passaggi complicati legati al superamento del finanziamento pubblico hanno saputo costruirsi un percorso nuovo». C’è da aggiungere che forse la caratteristica comune a quasi tutti i think tank italiani è quella di non fare ricerca in house ma di operare «come dei forum». Istruiscono dibattiti, collegano mondi diversi tra loro, «aprono porte» ma non producono materia prima. Ed è molto probabile che questo posizionamento sia dovuto proprio alla fragilità dei finanziamenti. Racconta Franco Debenedetti a proposito dell’Istituto Bruno Leoni: «Noi viviamo solo grazie a donazioni private e il nostro è un obiettivo circoscritto ma che consideriamo nobile: veicolare le idee per il libero mercato in Italia. Per raggiungerlo andiamo anche nelle scuole medie superiori e ci autotassiamo. Sono impegni che forse non servono per salire nel ranking ma che hanno un grande valore di semina».
Le fondazioni dei leader
Nel valutare la forza dei think tank italiani Diletti invita a tener presenti i complessi rapporti con la politica. I partiti sono in via di disgregazione e si afferma la tendenza di singole personalità «a costruirsi la propria ditta». Vale per la Fondazione Italianieuropei che fa capo a Massimo D’Alema ma si può applicare a organizzazioni più volanti come la Fondazione Open che riporta a Matteo Renzi. Anche il Movimento 5 Stelle sente l’esigenza di costruire «scatole pensanti» che si collochino a metà tra l’allestimento di competenze e la creazione di relazioni e in qualche maniera la Fondazione Casaleggio corrisponde a questo identikit. Vogliono «aprire porte». Al fondo di tutto c’è una domanda di nuove idee che è altissima e non trova per ora un’offerta in grado di soddisfarla.
Da Corriere della Sera–Economia, 22 Maggio 2017