Tra Trump e la Clinton, finalmente un candidato in cui credere. Frank Underwood è tornato (da stasera su Sky Atlantic): ed è una benedizione. Il protagonista di House of Cards è un esempio unico di politico onesto con i propri elettori – a patto di riconoscere che quegli elettori siamo noi. Quando sfonda la quarta parete – è il marchio di fabbrica della serie – per confessare le proprie bassezze, ci seduce e ci trascina in una campagna elettorale permanente. Vorremmo disprezzarlo, ma la verità è un collante prodigioso.
Frank non nasconde le proprie ambizioni, né i propri grassi appetiti: le costine di Freddy, i videogiochi, il fumo, le esplorazioni erotiche oltre i confini del matrimonio e dell’identità sessuale. E il potere, naturalmente: “tutto nella vita riguarda il sesso, tranne il sesso. Il sesso riguarda il potere”. Solo che Freddy chiude bottega; la Playstation non va d’accordo con la scorta; le sigarette si devono razionare; e persino scopare è un lusso, se sei il leader del mondo libero. Ma il potere no, non va centellinato, non richiede disciplina, ti ci puoi immergere. E il potere ti può rendere immortale: “il denaro è il villone a Sarasota che cade a pezzi dopo dieci anni; il potere è l’antica costruzione in pietra che resiste per secoli”.
House of Cards è, al midollo, una storia d’amore: quella tra Underwood e il potere. Il tradimento da cui prende avvio la serie – il presidente che ha contribuito a far eleggere si rimangia la promessa di crearlo Segretario di stato – non è il movente delle sue successive azioni: è la rivelazione della loro necessità. Se i personaggi sono scenografia, il punto non è la vendetta, ma la crisi di un rapporto da salvare. Parte Riccardo III e parte Giulio Andreotti, Frank risponde alla chiamata: se il potere si apprezza e deprezza come la proprietà immobiliare, il Parco della Vittoria è su Pennsylvania Avenue.
Underwood non è certo un lupo circondato da pecore: si muove tra individui che, proprio come lui, si curano di soddisfare interessi personali – anche se preferiscono imbellettarli con luminose dichiarazioni di principio. Ma è questo che a renderli così prevedibili, permettendo a Frank di pianificare l’ascesa. Per blandirli, serve solo anticiparne i desideri: affare da poco, quando disponi di un archivio dettagliato e quando ogni cosa è commerciabile. Per neutralizzarli, è spesso sufficiente accompagnarli alla porta, non appena la pressione comincia a schiacciarli: ecco, allora, le indiscrezioni per additare il liberal stagionato che anela il martirio in nome della socialdemocrazia; ecco il rendez-vous alcolico per cestinare il deputato talentuoso ma schiavo delle proprie inquietudini. Se assecondare l’autodistruzione non basta, non mancano le misure più incisive – la metro di Washington può venire in aiuto.
È la “politica senza romanticherie” di Buchanan e della Public Choice, ma è evidentemente anche qualcosa di più. Nel calcolo spregiudicato di Frank, ogni mezzo è lecito – il fine non è un generico interesse personale: è il potere nudo. Una volta raggiunta la Casa Bianca, cosa rimane da fare? Il denaro talvolta sazia, il potere mai. C’è un’elezione da preparare: “la democrazia è sopravvalutata”, ma il matrimonio con il potere va consumato. Frank promette dieci milioni di posti di lavoro, finanziati con la demolizione del welfare: un piano allergico agli steccati programmatici – “lasciamo l’ideologia ai generali da poltrona” – ma utile per comprare consenso all’ingrosso. Nasce così AmericaWorks, il Jobs Act di Underwood; e, per offrire un saggio delle sue potenzialità, Frank non esita ad appropriarsi dei fondi per le emergenze ambientali.
In House of Cards, anche gli snodi più inverosimili convergono nel delineare un’antropologia politica del tutto accurata. Il gioco ha “una sola regola: sii cacciatore o sarai preda”. Tutto vale, allora: tradimenti, inganni, persino l’omicidio. I misfatti di Frank ci ricordano una verità autoevidente: il potere attrae solo chi ha lo stomaco per usarlo. Come ha spiegato Michael Walzer, per chi occupa cariche pubbliche sporcarsi le mani è facile (e in certi casi forse doveroso); ciò che non è altrettanto facile è trasformare un uomo per bene in un uomo disposto a sporcarsi le mani. In politica, insomma, la sociopatia di Underwood non è indispensabile, ma aiuta.
Da Il Foglio, 7 marzo 2016