Sono 295 le pagine che raccolgono tutte le norme approvate dal governo italiano da un mese a questa parte, comprese le ordinanze di protezione civile ma escluse quelle territoriali, per far fronte all’emergenza epidemiologica provocate nel Paese da COVID-19.
Sono troppe? Troppo poche? Troppe il giusto? Le norme non si pesano tanto al chilo.
Fa senz’altro impressione che il governo abbia dovuto produrre tante disposizioni e suscita anche insofferenza tra cittadini e imprese la confusione normativa e, a seguire, burocratica che rende ancora più oscuro il linguaggio della legge. Ieri è arrivato il quarto modulo di autocertificazione che ci impone persino di indicare, noi comuni cittadini, le disposizioni regionali da rispettare. Tuttavia, anche se la normomania è un male evidente della nostra democrazia, in situazioni di emergenza protratta bisogna considerare che è l’evoluzione stessa dell’emergenza a dettare le norme, esigendo alle istituzioni e ai cittadini di cambiare regole e comportamenti per adeguarli ai rischi diretti e indiretti (non solo sanitari) dell’epidemia. L’ultimo decreto legge appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale fa, a tal proposito, una cosa buona e una meno buona.
Il buono che c’è sta, retrospettivamente, nel tentativo di sanare un ribaltamento dell’ordine di autorità per cui le misure che più hanno afflitto e limitato la nostra libertà sono state assunte con atti secondari di governo, inaudito Parlamento. Gli atti normativi finora approvati difficilmente si possono ritenere illegittimi. Ma è stato opportuno che la morsa alle libertà individuali, attuata con Dpcm, sia stata “confermata” dal Parlamento, il quale deve farla propria con il nuovo testo normativo. Si è così ripristinato uno Stato di diritto che pareva offuscato. Il ruolo del Parlamento, per quanto ridotto nel ruolo e nei numeri (per via delle misure di distanziamento), va tenuto da conto soprattutto ora, in un momento di emergenza e nel desiderio aleggiante di un potere solo al comando che ci protegga indisturbato dalle critiche».
Il meno buono che c’è nel decreto legge riguarda, al contrario, la previsione di come si devono fare le regole per il futuro. Aver costruito un sistema per cui le regioni sono limitate a introdurre disposizioni più stringenti solo in emergenza e finché non interviene lo Stato non esimerà da una confusione e soprattutto dal rischio di una rincorsa al rialzo, come è avvenuto finora.
In ogni caso, dobbiamo aspettarci che quelle 295 pagine, decreto legge ultimo compreso, diventeranno ben presto mille e più. Non serve essere perspicaci per immaginare che le disposizioni ai tempi del coronavirus si moltiplicheranno in maniera esponenziale nel corso dei mesi, anche una volta superata l’emergenza del contagio.
Con una differenza, tuttavia, di cui fare tesoro fin da subito.
Per gestire la situazione scoppiataci in mano, il tempo di riflettere su cosa fare è stato un lusso. Questo spiega e forse giustifica le slabbrature alle procedure e l’impressione che si sia proceduto a tentoni, per aggiustamenti continui. In questi giorni di emergenza dilatata in cui l’arma contro il virus è nascondersi in casa, il governo ha invece tutto il tempo di pensare all’immediato piano successivo per evitare il più possibile un secondo contagio. Un virus così aggressivo non può essere combattuto stando per sempre distanti e lontani, ma al tempo stesso, per poter uscire dalle nostre tane, dobbiamo avere la ragionevole tranquillità che esista una strategia sanitaria per evitare di ricominciare daccapo. È prevista per oggi l’approvazione di un decreto del Presidente del Consiglio per una task force tecnologica presso il ministero dell’innovazione per un sistema di contact tracing utile a questa seconda fase.
Se ne è parlato fin da subito, evocando i modelli asiatici di tracciamento o innalzando, d’altro lato, la barriera ideologica della privacy. Ridurre la questione dell’uso dei dati e del monitoraggio tecnologico in termini dicotomici diritto alla salute contro diritto alla privacy è fortemente fuorviante e sterile. I due diritti devono stare insieme. Non sta scritto nel Decalogo che i diritti inerenti la riservatezza siano annullati dal controllo da remoto, così come non sta scritto in nessun testo sacro che il diritto alla vita non si possa garantire senza violare gli altri diritti.
Quello che invece è scritto nel nostro sistema giuridico e soprattutto nelle nostre coscienze è che tutelare la salute è tutelare la vita, ma la vita va tutelata nella sua dignità, non semplicemente come sussistenza. Per questo, la sfida che il governo ora ha il tempo di cogliere è proprio quella di tenere insieme il rispetto per la vita e il rispetto dei diritti che rendono la vita degna di essere vissuta, ivi compresa le libertà da quegli sguardi altrui e del pubblico potere che non sono strettamente necessari a salvare le nostre vite.
I principi giuridici, per fortuna, già ci sono. E ci sono anche le regole per rendere l’auspicato tracciamento coerente con gli altri diritti, oltre a quello alla vita e alla salute. Volendo e pensandoci seriamente fin da subito, un sistema di tracing sicuro, affidabile, proporzionato alle effettive esigenze e soprattutto limitato allo stretto necessario per il tempo necessario può essere il piano B con cui tutti potremo tornare gradualmente a vivere le nostre vite, senza sacrificare nessuno dei diritti a cui tutti, magari inconsapevolmente, teniamo.
Da Il Mattino, 27 marzo 2020