13 Dicembre 2022
Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
Chi trucca le regole fa male a se stesso. Ursula von der Leyen ha annunciato una «semplificazione» delle regole sugli aiuti di Stato, e un fondo europeo ad hoc, per contrastare l’«Inflation Reduction Act» americano. A dispetto del nome, quel provvedimento dell’amministrazione Biden consiste in una serie di aiuti (soprattutto green) alle aziende statunitensi. Non è una novità: da sempre si contrabbandano sotto parole altisonanti (la sicurezza, la difesa dell’ambiente, l’indipendenza, la lotta a questo o quel male sociale, eccetera) azioni suggerite più prosaicamente al decisore pubblico da chi pensa di beneficarne.
L’iniziativa di Biden, ha detto von der Leyen, può «chiudere i mercati» e «frammentare catene di distribuzione già messe alla prova dal Covid». Probabilmente ha ragione. Sicuramente rende più costosi tutta una serie di input per le stesse imprese statunitensi, che dovranno acquistarli dal produttore gradito a Washington anziché dove loro più conviene. Si tratta di un’operazione di ridistribuzione del reddito, ma non del genere teoricamente caro a un’amministrazione di sinistra: semplicemente, sposta risorse da alcuni consumatori ad alcuni produttori.
Chi trucca le regole fa male a se stesso: nel breve, chi riceve sussidi si arricchirà e i consumatori tutti pagheranno il conto. Nel medio termine, però, provvedimenti di questo tipo si rivelano delle distorsioni: peggiorano il modo nel quale le risorse vengono impegnate, perché la logica politica prevale su quella della convenienza.
Ecco perché stupisce che la Commissione, per contrastare un’iniziativa di cui comprende appieno il potenziale dannoso, si proponga di fare in buona sostanza lo stesso. Più aiuti di Stato e fondi europei ad hoc per «compensare» quelli messi in campo da Biden. Venendo meno a uno dei propri principi fondamentali. La disciplina degli aiuti di Stato, in Europa, serve a evitare la frammentazione del mercato europeo, non a lanciare messaggi in politica estera.
«Concorrenza sleale» è un’espressione che piace ai politici che parlano di economia. Sembra convincente: del resto la competizione economica somiglia, ha dei punti di contatto con quella sportiva. La logica, si sostiene, dovrebbe essere la medesima: nel calcio non faremmo gareggiare una squadra giovanile contro una di serie A, in molte discipline c’è il meccanismo degli handicap, che consente di parametrare la performance dell’atleta su quella di sportivi di pari livello. Lo stesso si dovrebbe fare nell’economia: aiuti, bonus, «ristori», servirebbero per compensare differenze nelle condizioni di produzione. Se gli Stati Uniti (o la Cina) aiutano le loro imprese, lo stesso dobbiamo fare noi con le nostre: altrimenti non saranno competitive.
Il guaio è che nello sport il fair play è tutto, perché lo scopo del gioco è il gioco stesso. Noi godiamo di una bella partita di calcio o di un bel match di tennis, come godremmo di un altro intrattenimento. Nell’economia invece la concorrenza non è un fine in sé: il fine delle aziende coinvolte è la produzione e il fine della produzione è sempre il consumo. Che cosa conviene al consumatore? È questa la domanda che i decisori politici dovrebbero farsi.
L’interesse nazionale, o quello del mezzo miliardo di persone che abita l’Unione europea, non coincide con l’interesse a breve termine dei produttori. Se l’espressione significa qualcosa, ha a che fare con l’interesse dei consumatori (siamo tutti «consumatori»: anche di materie prime e beni intermedi, che vengono poi trasformati in beni di consumo) e in particolare dei giovani, a cui solo un’economia dinamica e ben funzionante può dare opportunità.
Paradossalmente, un Paese può perseguire politiche di libero scambio anche da solo ma il protezionismo si fa in due. Esattamente con il genere di strategia accarezzata dalla von der Leyen: la risposta «colpo su colpo» a dazi o sussidi altrui. È quello che accadde negli anni Trenta, quando però il sistema delle alleanze internazionali era sfilacciato. Sarebbe paradossale che qualcosa di simile avvenisse proprio ora che l’allineamento fra Stati Uniti e Ue, a causa del conflitto ucraino-russo, è più stretto che mai. Abbiamo le stesse sanzioni ai danni della Russia, e poi ci «sanzioniamo» fra noi?
dal Corriere della Sera, 13 dicembre 2022