16 Settembre 2024
L'Economia – Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Economia e Mercato
Le riforme non si fanno da sole. Ognuna reca l’impronta dei riformatori che l’hanno concepita e messa in atto. Yingyao Wang, ricercatrice di sociologia all’Università della Virginia, ha scelto di raccontare le riforme economiche cinesi guardando non al cosa ma al chi. E un chi particolare: non tanto i capi politici, ma i funzionari che prendono decisioni di dettaglio spesso cruciali. «Markets With Bureaucratic Characteristics» (New York, Columbia University Press, 2024, pp. 304) racconta la Cina negli ultimi quarant’anni attraverso l’alternarsi di diversi gruppi di mandarini, fino all’epoca di Xi Jiping. Quest’ultimo è spesso visto come il fautore di un approccio più muscolare e dirigista dei predecessori. Secondo Wang, il tentativo di Xi è stato almeno in parte quello di ridurre i margini di manovra dell’alta burocrazia. «Il succedersi delle riforme economiche ha visto crescere il potere dei ministeri competenti e la burocrazia economica nel suo complesso è diventata un luogo affollato e competitivo nel quale ciascun ministero prova a prevalere sugli altri». Le riforme rappresentano successi e fallimenti delle diverse tecnostrutture, non rispetto al bene pubblico, ma nel prendersi le misure a vicenda.
Dopo la morte di Mao, il nuovo corso di Deng da principio vide momentanee convergenze fra due fazioni di burocrati: da una parte coloro che erano stati spediti, in epoca maoista, a occuparsi di sviluppo dei territori. E che col tempo avevano imparato a tollerare «incentivi irreprimibili ma nascosti». L’attività economica privata era illegale, come lo era la proprietà privata della terra. Ma alcuni funzionari legati ai territori svilupparono una certa tolleranza per situazioni illegali in teoria, provvidenziali di fatto. In certe regioni i grandi fondi collettivi venivano divisi in piccoli appezzamenti, affidati a individui o famiglie. Questi primi vagiti di «individualismo» avrebbero dovuto essere stroncati, ma la burocrazia locale doveva raggiungere gli obiettivi di produzione e se un po’ di «privatizzazioni surrettizie» aiutavano, tanto di guadagnato.
Il grosso dei cambiamenti che avvengono all’epoca di Deng è promosso da questi «local generalist» come li chiama Wang, i quali avevano osservato sul campo una ribellione silenziosa e non ideologica al socialismo e conoscevano di prima mano l’agricoltura e non l’industria pesante. Zhao Ziyang, primo ministro dal 1980 al 1987, «era stato il capo del partito nelle province di Sichuan e Guangdong nel periodo di Mao. (…). Nel 1962, Zhao aveva viaggiato fino a una provincia remota di Guangdong e aveva osservato che la produzione agricola veniva appaltata alle singole famiglie. Più tardi introdusse un sistema simile su scala più ampia nella provincia di Sichuan. Sempre a Guangdong, Zhao aveva pure appreso l’antica tradizione, per quanto formalmente proibita, degli abituanti di scambiare con Hong Kong e Macao.
Queste osservazioni piantarono i semi per la sua politica di apertura per le città costiere».
Sulla liberalizzazione convergono anche funzionari che invece hanno un approccio “macro” e mirano a stabilizzare l’economia del paese. Tuttavia, essi tollerano a fatica le zone economiche speciali, che cioè le città costiere vengano considerate delle enclave nelle quali sperimentare un regime più libero. E a favore di queste ultime che Deng compie, dopo Piazza Tienanmen, il suo famoso viaggio al Sud, col quale rassicura gli osservatori, ma soprattutto i tecnici locali. Questi ultimi, però, entreranno presto in un cono d’ombra e non ne usciranno più.
La generazione di burocrati degli anni Novanta è, secondo Wang, la prima che voglia importare in Cina idee “occidentali”. Ciò coincide con una riduzione del tasso di liberalizzazione: anziché creare spazi in cui poi avvengano liberi esperimenti, come aveva fatto Deng, si cerca di costruire un mercato finanziario e di privatizzare, almeno in parte, il sistema dell’industria pubblica. Gli esiti sono rilevanti: le aziende statali nel 2018 contavano ormai per «meno del 5% delle imprese cinesi, meno del 10% degli occupati e meno del 10% degli asset».
I «privatizzatori» hanno nondimeno un approccio «produttivistico», poco interessato a concorrenza e consumatori: si sono formati all’inizio dell’era maoista, durante il breve tentativo di costruire in Cina un «socialismo tecnocratico» simile a quello sovietico, tutto centrato sull’industria pesante. Per questo, essi procedono con una serie di fusioni interne al sistema dell’impresa pubblica (in via di privatizzazione e no), cercando parallelamente di rendere più efficiente il prelievo e rafforzare così le strutture dello Stato.
A essi segue, negli anni Duemila, una generazione di burocrati che per paradosso dall’Occidente riprendono l’idea di politica industriale, come più agile surrogato contemporaneo della vecchia pianificazione socialista.
Sono state queste ultime evoluzioni a consolidare la crescita cinese? O al contrario il grosso della crescita è ancora riconducibile alle “vecchie” riforme di Deng e agli attori economici che si affermarono grazie a esse?
Wang suggerisce che mentre queste visioni dell’economia sono patrimonio di gruppi diversi, che nel tempo hanno conquistato una relativa egemonia, un’idea che appartiene più o meno a tutti è l’apertura allo scambio internazionale. La classe dirigente cinese è unita dalla convinzione che la globalizzazione sia un valore, e tutt’oggi la difende. Tristemente, sono rimasti gli unici.