Il pensiero di Wilhelm Röpke nel saggio di Flavio Felice
20 Aprile 2024
L'osservatore romano
Giulia Paola Di Nicola
Argomenti / Economia e Mercato Teoria e scienze sociali
Il recente libro di Flavio Felice — Wilhelm Röpke (Torino, Ibl libri, 2024, pagine 176, euro 14) — costituisce una presentazione ragionata e comparata del pensiero di Wilhelm Röpke (1899-1966), l’economista tedesco noto come fautore di una terza via cristiano-liberale, alternativa al capitalismo e al socialismo. A Röpke, che ha attraversato i tumulti della prima metà del Novecento e della guerra fredda, stava a cuore il rapporto tra etica cristiana ed economia di mercato.
La scelta di opporsi al nazionalsocialismo procurò a Röpke l’anatema del 1933 come «nemico del popolo» e, di conseguenza, l’espulsione dal mondo accademico tedesco. Come spesso è accaduto agli oppositori del nazi-fascismo, costretti all’esilio, l’allontanamento dalla patria ha finito col produrre la fecondazione e la fecondità del suo pensiero, a contatto con le diverse culture, nei Paesi Bassi, in Turchia, all’università di Istanbul come professore di economia politica, a Ginevra, dove rimase a lungo, e verso la fine degli anni Cinquanta il ritorno in Germania come consigliere del cancelliere Konrad Adenauer.
A buon diritto Röpke è considerato il padre di un nuovo ordine economico e sociale, in quanto promotore di una scuola neoliberale, intesa come “umanesimo liberale” (personalismo liberale), messo a fondamento della Repubblica federale tedesca. Röpke sosteneva che il libero mercato ed il laissez-faire, lasciati a sé, non fossero in grado di garantire l’equità sociale, le pari opportunità e la concorrenza e che perciò fosse necessario l’intervento pubblico di cornice per realizzare una economia sociale di mercato al contempo libera e solidale.
A quanti si oppongono tout court all’”ordoliberalismo”, spesso pregiudizialmente considerato come un pensiero conservatore e liberista, Felice ricorda l’insistenza di Röpke nel richiamare lo Stato al dovere di definire le «regole del gioco», allo scopo di orientare ma non penalizzare il dinamismo della concorrenza.
La “sfortuna” di Röpke ha risentito dal fascino suscitato negli intellettuali europei dall’avanzante comunismo, considerato vettore di giustizia e uguaglianza e che poi tornarono sui loro passi, come è attestato dal libro: The God that Failed, nel quale si ritrovarono nel 1949 coautori del calibro di Louis Fischer, André Gide, Arthur Koestler, Ignazio Silone, Stephen Spender, Richard Wright. I sei saggi del libro hanno attestato la parabola discendente dall’entusiasmo alla delusione, dal supporto alla rivoluzione all’abbandono di quella bandiera.
A dispetto di quanto spesso si ritiene, Emmanuel Mounier, padre del personalismo comunitario, riuscì a non cadere nella trappola, benché attratto dalle spinte ideali dei venti marxisti dell’epoca. Nelle sue analisi economiche si tenne sempre a distanza da quel collettivismo statalista e pianificatore che soffocava la libertà della persona. Non si stancava di ricordare che lo «Stato è al servizio della persona» e dei gruppi intermedi, secondo la migliore tradizione umanista di ispirazione cristiana.
Felice mette in evidenza tre aspetti principali del pensiero di Röpke, e li individua nel sostegno ad un’economia di mercato che non può arrendersi alla logica della domanda e dell’offerta, ma reclama un orientamento etico e giuridico che ne regoli il funzionamento. In secondo luogo, sottolinea il costante riferimento alla civitas humana nella quale, da buon sociologo che Röpke era, interagiscono concretamente tutti i soggetti sociali. Come terzo elemento il tentativo di rispondere alla crisi della dissoluzione del mondo della vecchia Europa, indicando la necessità di progettare la famosa terza via, irta di variabili imponderabili, eppure inevitabilmente auspicata e ricercata anche sul piano istituzionale, come possibile alternativa ai sistemi in parte falliti del liberalismo e del collettivismo.
Al paragone di altri fan dell’economia di mercato, Felice ha il merito di valorizzare la posizione realistica di De Gasperi e della Democrazia cristiana, il cui “interventismo statale” mirava a riorganizzare la proprietà privata, costruire infrastrutture e case specie per risollevare gli strati più bisognosi della società, ma sempre attraverso misure sussidiarie e temporanee, in modo da non bloccare l’economia di mercato. Felice ritiene che la politica di De Gasperi sia stata ispirata al liberalismo popolare di Einaudi e di Sturzo, il quale condivideva appieno il richiamo alla moralità e dunque alla responsabilità che deve guidare la libertà, per non ricadere come un boomerang che stronca sia l’economia pubblica che quella privata.