Un lockdown assurdo, pericoloso e non spiegato. Appello alla logica

Legare le mani dietro la schiena a un paese azzoppato non è una strategia seria. Non è neppure una strategia poco seria

24 Marzo 2020

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Nel 1958, l’imprenditore e filantropo libertario americano Leonard Read scrisse un delizioso racconto, intitolato “I, Pencil”, nel quale una matita racconta il suo albero genealogico. La sua fabbricazione richiede la collaborazione inconsapevole di innumerevoli persone, dai boscaioli dell’Oregon alla segheria californiana dove i tronchi di cedro vengono lavorati, dai minatori dello Sri Lanka che estraggono la grafite per la mina fino ai raffinatori di olio per la laccatura esterna. Read aveva capito, settant’anni fa, un dettaglio dell’economia moderna che probabilmente è sfuggito – nella concitazione di questi giorni – al governo Conte: la sua complessità.

La decisione di decretare lo stop all’intero sistema produttivo italiano, con l’unica eccezione dei “servizi essenziali”, non è solo disastrosa sul piano delle conseguenze economiche: è anche discutibile sul piano logico e, soprattutto, assurda su quello metodologico. Anzitutto: perché sospendere ogni attività produttiva, ovunque nel paese, proprio ora?

Un conto è il blocco chiesto dal sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, e dal Governatore lombardo, Attilio Fontana, per la regione più colpita dal coronavirus. Altro è estendere questa stessa decisione all’intero territorio nazionale, incluse le aree che per ora sembrano reggere, le quali non potranno dare alcun contributo alla dinamica del Pil che già si preannuncia disastrosa. Oltre tutto, proprio due settimane fa è iniziato il lockdown: quali elementi sono cambiati al punto da indurre l’esecutivo a una decisione così drastica?

Non è possibile escludere che vi siano i presupposti per questo passo, ma non li hanno comunicati né il premier, né i suoi ministri. Poi, è incredibile il modo in cui il provvedimento è stato disegnato. Inizialmente, si è tentato di individuare i settori essenziali attraverso i codici Ateco. Tale classificazione ha perfettamente senso ai fini statistici, ma costituisce comunque una rappresentazione sintetica e burocratica della realtà che non sempre e non necessariamente ne rispecchia la sostanza. Per fare un caso clamoroso: in questi giorni, numerose imprese della moda hanno riconvertito i loro stabilimenti per produrre mascherine. Ma, poiché alla loro attività principale non corrisponde un codice contenuto nell’Allegato 1 del Decreto di domenica, in teoria dovrebbero chiudere! Si dirà: c’è la scappatoia. Possono “autocertificare” l’importanza delle loro attività e, col consenso del prefetto, continuare a operare. Ma siamo sicuri che tutti i prefetti forniranno la stessa interpretazione del requisito dell’essenzialità, anche in casi meno ovvi di quello citato? E saranno disposti a prendersi la briga di dare il semaforo verde di fronte al rischio che, in futuro, qualche pubblico ministero in cerca di titoloni possa aprire i fascicoli più fantasiosi su di loro e sugli amministratori delle imprese rimaste aperte?

Inoltre, le imprese spesso dipendono da una catena del valore che è tanto più lunga e ramificata quanto più complesso è il prodotto. Fino a quanti gradi di separazione la qualifica di servizio essenziale si trasmette ai fornitori? E con quali responsabilità per i manager a monte e a valle? L’approccio del dpcm del 22 marzo avrebbe avuto senso (forse) in un’economia pre-industriale, dove le filiere sono corte e le produzioni semplici. Ma non è in alcun modo applicabile qui-e-ora. Tant’è che la soluzione trovata è quella tipica italiana: un divieto draconiano, temperato dalla deresponsabilizzazione dello Stato e dallo scaricabarile verso le sue articolazioni locali e il settore privato.

Non che manchino motivazioni nobili alla base del decreto: prevenire la diffusione del contagio e tutelare la sicurezza dei lavoratori sono obiettivi assolutamente prioritari. Eppure, sarebbe bastato un poco di impegno per trovare soluzioni alternative. Per esempio, anziché confrontarsi coi sindacati e le associazioni datoriali su un’assurda lista di codici Ateco, ingaggiarli per rafforzare le misure di sicurezza. Magari, prevedendo forti defiscalizzazioni per gli acquisti di dispositivi di protezione individuale o per i contributi alle spese di spostamento dei dipendenti, nel caso in cui vadano al lavoro col mezzo privato. Legare le mani dietro la schiena a un paese azzoppato non è una strategia seria. Non è neppure una strategia poco seria. È la manifestazione della totale assenza di qualsivoglia strategia.

Da Il Foglio, 24 marzo 2020

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