4 Ottobre 2016
Il Sole 24 Ore
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Fin dalla fondazione della Repubblica, il discorso pubblico sulle istituzioni ha avuto la transizione come chiave fondamentale di narrazione. L’Italia è stata sempre interpretata come una Repubblica transitoria, una democrazia incompiuta a cui mancano (ancora?) le condizioni politiche e istituzionali perché il gioco democratico si possa svolgere all’insegna della normalità». Per Giovanni Guzzetta le scelte di politica legislativa costituzionale vanno collocate nel contesto, storico, politico, istituzionale: e chiude con queste riflessioni ltalia, si cambia, il denso libro scritto per fare l’«identikit della riforma costituzionale» del governo Renzi. Il momento della normalità, annota, è stato sempre stato spostato in avanti dal susseguirsi delle eccezionalità: il fascismo, la liberazione, il più grosso partito comunista del mondo occidentale, il terrorismo, Mani pulite, Berlusconi, le crisi da Lehman in avanti. Per settant’anni la partita politica si è giocata su queste idee, transitorietà e incompiutezza. Nel nome della transitorietà si sono giustificate sia la provvisorietà delle soluzioni deboli sia la fragilità di quelle decisioniste. Nel nome dell’incompiutezza si sono giustificati sia il ruolo maieutico di élite che proteggessero la democrazia dalle spinte populiste o eversive, sia la teoria della convergenza di forze politiche che evitasse il gioco competitivo tra loro.
Questa è l’idea generatrice del libro: il fermo convincimento di Guzzetta che per superare quella transitorietà e colmare quelle incompletezze, si debba risolvere in modo diverso la dialettica tra rappresentanza e decisione; che sia necessario abbandonare l’idea di una democrazia che si concreta nella mera rappresentanza, e si realizza nella riproduzione fotografica del proporzionale puro; che si debba accogliere invece il principio democratico per cui la minoranza controlla ma la maggioranza decide; e così superare pure la «tradizionale dicotomia ottocentesca tra Parlamento e governo per la nuova linea di demarcazione tra maggioranza (con il governo) da un lato e opposizione dall’altro». Sono temi rintracciabili fin dai dibattiti in Costituente; per Piero Calamandrei la nostra Costituzione nasceva non da una rivoluzione compiuta ma da una «rivoluzione promessa». La scarsa stabilità degli esecutivi, la debolezza delle premiership, la frantumazione a cui vanno incontro i governi di coalizione, le degenerazioni del parlamentarismo: eventualità ben presenti ai padri costituenti, ma solo per alcuni pericoli da evitare. Una democrazia di investitura con adeguata leadership governativa sul modello anglosassone è esplicitamente l’obiettivo a cui mira De Gasperi con la legge elettorale del 1953. A chi lo accusava di “svolta autoritaria”, ricordava che Weimar e l’ltalia dello Statuto erano crollati peri impotenza, non per eccessivo potere dei governi; e controbatteva che «la sindrome del tiranno non giustificava una rinunzia alla razionalizzazione e stabilizzazione del parlamentarismo». Mancarono le condizioni per applicare la “legge truffa”: è negli annali della nostra storia quanto l’instabilità degli esecutivi, il basso rendimento decisionale abbiano contribuito all’instabilità economica, all’aumento del debito pubblico, alla corruzione che segnarono la fine della Prima Repubblica. Venne il maggioritario uninominale e ci diede la democrazia dell’alternanza e la Seconda Repubblica; ma quella legge elettorale, non “doppiata” da istituzioni che la accolgano, non poté impedire che dal 1994 al 2005 nessuna legislatura (tranne una) si chiudesse con lo stesso governo con cui era iniziata. Ed oggi l’esecutivo è costretto a un esasperato ricorso ai decreti legge e ai voti di fiducia.
La riforma renziana è lineare e semplice nella definizione dell’obiettivo: superare i governi di coalizione, conferire maggiore potere al governo sostenuto dalla sua maggioranza, consentire agli elettori di determinare in modo “immediato” la formazione di una maggioranza parlamentare. L’obiettivo unitario si articola in una serie di modifiche costituzionali e nella legge elettorale, che ne è parte integrante. Guzzetta dedica la parte centrale del libro a quello che chiama identikit, analisi di ratio e debolezze, di rilievi giustificati e accuse senza fondamento; sia nelle sue parti più note (Senato e regioni) sia in quelle meno frequentate ma pure essenziali, quali la corsia preferenziale per i provvedimenti del governo, le leggi di iniziativa popolare, i referendum propositivi. E naturalmente la legge elettorale e la vexata quaestio del ballottaggio su cui già si ebbe a scrivere su questo giornale. Chi ha passione per la storia, leggerà il libro come le vicende di un’idea, quella di un governo che decide e di un’opposizione che controlla, sempre presente ma mai ancora compiutamente realizzata. Chi l’ha più per i fatti giuridici, troverà dotta e precisa analisi dei dispositivi. Ma a chi ha la passione per la politica resteranno in mente le ultime pagine, quelle in cui Guzzetta colloca le scelte di politica di riforme costituzionali nel contesto della cultura politica. Allora consensi e dissensi, difese e accuse si compiono e si comprendono: si disvelano come momenti delle retoriche politiche che hanno animato la storia del nostro Paese. Giunto alla fine questo lettore si rammaricherà che l’autore non abbia continuato su questo filone di pensiero. E si augurerà che magari voglia riprenderlo in futuro. A riforma approvata.
Da Il Sole 24 Ore, 2 ottobre 2016