Ogni rosa ha le sue spine, ogni medaglia ha il suo rovescio. In questi giorni la Consip è sotto i riflettori, per l’inchiesta su Alfredo Romeo e Tiziano Renzi. L’acronimo non è fra i più noti, ma il lettore ricorderà che negli ultimi anni la Consip è stata costantemente evocata in ogni operazione di «spending review». La Consip nasce negli Anni Novanta per informatizzare dati e prassi del ministero del Tesoro. Col tempo, è diventata la centrale di committenza nazionale, ovvero una società che acquista forniture o servizi, aggiudica appalti pubblici o conclude accordi, per le amministrazioni pubbliche. Queste ultime hanno bisogno di acquistare prestazioni da altri, semplicemente per poter fare il proprio lavoro. Lo Stato non può «auto-produrre» tutto ciò che gli è necessario. E verrebbe da dire: per fortuna. Per fortuna non viviamo in un Paese nel quale lo Stato vende anche gomme e matite. E per fortuna il fatto che la sanità sia pubblica non significa che utilizzi, per esempio, solo farmaci italiani, e non invece di quelli che meglio possono curare una certa patologia.
Lo Stato «compratore» ha i suoi conflitti d’interesse. C’è sempre il rischio che acquisti un certo prodotto e non un altro, un certo servizio e non un altro, sulla base di una scelta politica, influenzata non da un criterio di merito ma da relazioni d’amicizia o peggio.
La corruzione danneggia sia la politica (i più furbi hanno più risorse) sia il bilancio dello Stato: se un’azienda ritiene di aver bisogno di un «aiutino» per vincere un appalto, è probabile che non avrebbe fatto l’offerta migliore.
Come abbiamo pensato di risolvere il problema? Centralizzando le stazioni di committenza, creando degli snodi nevralgici della spesa pubblica specializzati proprio nell’acquistare beni e servizi dai privati. Il governo Renzi ha annunciato di voler ridurre le stazioni appaltanti da 32.000 a 35. Due gli obiettivi. Primo, razionalizzare la spesa beneficiando di economie di scala. Semplificando: più acquisto, più il mio fornitore dovrà farmi uno sconto, dal momento che rappresento buona parte del suo «mercato». Secondo, centralizzare gli acquisti vuol dire riunire e magari riuscire a capire meglio tutta una serie di informazioni. Ciò dovrebbe consentire a poche stazioni appaltanti di essere migliori compratori di quanto lo siano tante amministrazioni che vanno ognuna per suo conto.
Quali sono le spine, qual è il rovescio della medaglia? Centralizzare gli acquisti vuol dire pensare che siano tutto sommato «standard»: che non importa granché se un certo ente conosce meglio dello Stato centrale le sue esigenze da una parte, i suoi potenziali fornitori dall’altro. Si è pensato che il vantaggio della conoscenza puntuale di necessità e territorio impallidisse di fronte al rischio di connivenze e di legami sotterranei.
Si è però sottovalutato un rischio: la centralizzazione semplifica il lavoro del lobbista nel migliore dei casi, e del corruttore nel peggiore. Dà a costui un singolo obiettivo, un grande calderone di quattrini da puntare per trarne qualche beneficio. Magari ostacola i piccoli corruttori (ma per lo stesso principio per cui penalizza le piccole aziende), in compenso aiuta quelli che sanno pensare in grande. Forse, addirittura incentiva i comportamenti ambigui. Nel momento in cui da una singola stazione appaltante dipende il destino della mia azienda, perché non ce n’è altre cui possa rivolgermi, magari anche se sono molto bravo penso a comprarmi una polizza d’assicurazione: coltivando rapporti, cercando protettori compiacenti.
A parte una fugace parentesi di federalismo mal applicato, l’Italia è da sessant’anni un Paese molto centralista. È anche un Paese considerato dai più molto corrotto. Chi spinge verso ulteriori centralizzazioni, forse, qualche dubbio dovrebbe farselo venire.
Da La Stampa, 12 marzo 2017