A chi (soprattutto Dario Stevanato) si è schierato a favore della flat tax, dando conto del fallimento della comprehensive income tax in salsa italiana, hanno risposto coloro (Enrico De Mita e Vincenzo Visco) che invece ritengono impossibile rinunciare al modello che si impernia sulla progressività delle aliquote.
Posizioni, queste ultime, che a mio avviso non danno adeguato risalto al fatto che l’attuale assetto dell’imposizione reddituale è estremamente iniquo, innanzitutto perché la progressività colpisce solo i redditi da lavoro e di pensione, quelli che per ovvie ragioni meno meriterebbero di venire falcidiati da aliquote elevate, e non anche – ma l’elencazione non è tassativa – i redditi derivanti dal possesso di attività finanziarie, quelli da locazione degli immobili, i redditi agrari e, addirittura, i redditi esteri di facoltosi non residenti che si trasferiscano nel nostro paese. Il confronto non va fatto dunque tra l’operaio e il manager, entrambi tassati in vigenza di flat tax con la stessa aliquota sul reddito, ma tra lavoratori e rentiers, garantendo l’attuale sistema un vantaggio francamente incomprensibile e inaccettabile ai secondi nei confronti dei primi.
Le aliquote Irpef poi sono già molto elevate a partire da 28mila euro (38%, di poco distante dalla massima, prevista per i redditi superiori a 75mila euro in misura pari al 43%), sicché non può che prendersi atto che l’attuale sistema tassa allo stesso modo il milionario e colui che percepisce redditi di gran lunga più bassi. Non riesce a migliorare le cose il sistema delle deduzioni e delle detrazioni, che è non solo farraginoso, complicato, ingestibile (in quanto frutto, spesso, di scelte politiche estemporanee collegate al prevalere di questo o quel gruppo di pressione), ma anche, per quel che riguarda le detrazioni per oneri, privo di qualsivoglia valenza redistributiva. Infine, va adeguatamente sottolineato che la progressività per scaglioni danneggia la famiglia monoreddito, senza che le detrazioni per carichi familiari siano in grado di porre rimedio allo svantaggio derivante dall’applicazione delle aliquote progressive.
Insomma, un’imposta sul reddito iniqua, frammentata, complessa, articolata. Ma non solo, giacché l’Irpef è anche inefficiente, sia per gli effetti distorsivi che le aliquote, le quali contribuiscono al “cuneo fiscale”, generano sull’offerta di lavoro, sia in ragione del fatto che l’elevatezza dei tassi previsti per gli scaglioni più alti costituisce un formidabile incentivo all’evasione (tanto che solo l’i per cento dei contribuenti dichiara redditi superiori a 100mila euro).
Ben venga quindi un’imposta che rimedi ai vistosissimi difetti sopra elencati assoggettando ad aliquota unica tutti i redditi posseduti dal soggetto. Essa deve configurarsi comunque, nel pieno rispetto del dettato costituzionale, come progressiva, il che in effetti avviene grazie al minimo vitale, che dovrebbe integrare al minimo i redditi a esso inferiori, alla deduzione base (che si incrementa in relazione alla composizione del nucleo familiare e si riduce fino ad azzerarsi con l’aumento del reddito) e a specifiche deduzioni per redditi di lavoro dipendente e pensioni. La flat tax è anche imposta negativa per gli incapienti, coloro cioè il cui reddito scende sotto lo zero per effetto delle deduzioni, i quali quindi potranno contare su somme di denaro che costituiscono forme concrete di lotta nei confronti della povertà.
Di grande interesse anche la prevista abolizione dell’insostenibilmente iniqua Irap, imposta discutibilissima da sostituirsi con un contributo sanitario, destinato alle regioni, che andrebbe posto a carico dei nuclei familiari più abbienti, circostanza questa che dovrebbe ulteriormente attenuare i dubbi sull’equità dell’imposta.
Ma allora, se i “ricchi” sono comunque assoggettati a un prelievo che non è proporzionale e se debbono pagarsi la sanità, che rimane gratuita per gli altri, che possono contare, se ne ricorrono le condizioni, sul minimo vitale (che è un trasferimento) e nei cui confronti, se incapienti, opera anche un meccanismo di imposta negativa, mi viene da dire che è tutto da discutere che la progressività insita nell’attuale sistema, più illusoria che reale anche in ragione degli elevati tassi di evasione, si configuri in modo più marcato rispetto a quella che emergerebbe dalla riforma. Che, oltretutto, è retta da un disegno organico, preoccupandosi i proponenti delle conseguenze finanziarie di quella che sarebbe una vera e propria rivoluzione, in una prospettiva, che non può non condividersi, di riduzione della spesa pubblica in modo da porre in linea il nostro paese con la media dei Paesi europei.
Una sola perplessità: l’Iva che passa nella sua aliquota ordinaria al 25%, e ciò non solo perché non è opportuno inserire in una proposta che interviene sul nervo scoperto della progressività un provvedimento che va nell’opposta direzione, ma anche perché il prospettato innalzamento finirà per incrementare il già altissimo livello di evasione dell’imposta.
Che si proceda dunque nella direzione indicata, nella consapevolezza, tuttavia, che il progetto incontrerà fortissime resistenze, più per ragioni ideologiche che tecniche: la progressività che si fonda sulle aliquote ha in effetti una valenza simbolica e psicologica di grande momento, è una vera e propria bandiera, e tutti sanno che ammainare le bandiere è sempre oltremodo difficile.
Da Il Sole 24 Ore, 10 Luglio 2017