L’11 ottobre 1984 il segretario di Stato americano, George Shultz, è in visita a Città del Messico. Pochi mesi prima in Nicaragua, in elezioni disertate dall’opposizione democratica, è stato eletto Daniel Ortega. L’amministrazione Reagan è impegnata a costruire un cordone sanitario attorno al paese centroamericano. È probabile che Shultz si aspettasse le proteste della sinistra messicana. È meno probabile che immaginasse lo slogan per cui ci si ricorda ancora di quei cortei: “Reagan, rapaz, tu amigo es Octavio Paz”.
Octavio Paz all’epoca ha settant’anni. È un monumento. Era partito da sinistra: da principio marxista eccentrico, poi socialista libertario, poi qualcos’altro. Pochi giorni prima, il 7 ottobre, a Francoforte, ha ricevuto il Premio internazionale per la pace degli editori tedeschi. Ha ringraziato con un magnifico discorso, “Il dialogo e il rumore”. Il dialogo “ci proibisce di negare l’umanità del nostro avversario”. Non c’è “una relazione di causa e effetto” fra pace e democrazia, ammonisce, la democrazia consente “uno spazio aperto favorevole alla discussione degli affari pubblici e, di conseguenza, anche dei temi della guerra e della pace”. “La democrazia è dialogo e solo il dialogo apre le porte alla pace”. Ma quando parla di democrazia Paz non pensa ai banchi verdi di un palazzo gotico sulla riva sinistra del Tamigi. Pensa alle democrazie in divenire e a quelle stroncate sul nascere, nel cosiddetto Terzo mondo. La rivoluzione sandinista del 1979 ha “ripetuto il caso di Cuba: la rivoluzione venne requisita da parte di una élite di dirigenti rivoluzionari. Quasi tutti costoro venivano dall’oligarchia originaria e in maggioranza sono passati dal cattolicesimo al marxismo-leninismo o hanno mescolato le due dottrine”. L’obiettivo dei sandinisti è “installare in Nicaragua una dittatura burocratico-militare secondo il modello dell’Avana”. Reagan rapaz, tu amigo es Octavio Paz.
Il 10 dicembre 1990 Paz riceve il Premio Nobel per la letteratura. La sua poesia resta una costruzione imponente, resiste al tempo che passa. Il suo lavoro di saggista, il suo pensiero politico, è così intarsiato di elementi biografici da apparire sempre più come una testimonianza poderosa di ciò che è stato il Novecento.
Nel suo grande libro del 1950, il Labirinto della solitudine, Paz sconvolge il lettore, riconducendo alla “solitudine” l’identità messicana. Ma come. Cosa c’è di meno solitario del folklore dei campesinos, delle grandi feste di una cristianità popolare, della Rivoluzione di Zapata? “Come creare una società, una cultura che non rinneghi la nostra umanità senza trasformarla però in un’astrazione” è un tarlo che perseguita tutti gli uomini. Ma per il messicano il repertorio delle possibilità sembra esaurito. “Se la storia è teatro”, scriverà poi, “quella del nostro paese è stata una mascherata interrotta più volte dallo scoppio dell’ammutinamento e della rivolta”.
La rivoluzione messicana, che Paz sente pulsare nelle vene perché suo padre, Octavio pure lui, ne è stato un comprimario di tutto rispetto, “sfocia nella storia universale”. Anch’essa però si rivela “infeconda”, come secondo Paz era stato il cattolicesimo dell’epoca coloniale che pure aveva offerto “un rifugio ai discendenti di quanti avevano visto lo sterminio delle loro classi dirigenti, la distruzione dei loro templi e la soppressione delle forme più avanzate della loro cultura”. Quella religiosità tuttavia rifiuta il confronto col mondo, non riesce a produrre una “modernità messicana”, come pure il liberalismo anticlericale che la scalza, sostituendo alla carnalità di una pratica religiosa ridotta a una giaculatoria meschina, ma popolare, viva, umana, l’idea astratta di un individuo troppo sradicato ed europeo per essere, davvero, messicano.
L’alienazione politica nasce dalla nostalgia del sacro, un sacro precortesiano, che ha cercato invano di accomodarsi nell’armatura dello pseudo-progresso offerta da conquistatori e repubblicani. Eccola, la solitudine: la solitudine di chi se le è giocate tutte, le formule che offriva la storia, per provare a starci dentro, e ora non gli resta che sentirsi lontano dal resto del mondo, dove non c’è ancora spazio per il rimpianto perché resta la possibilità dell’azione.
All’epoca coloniale non erano mancati i suoi acuti, Paz ne ha sempre in mente uno, Suor Juana Inés de la Cruz, la cui poesia è intrisa di riferimenti razionalistici. Però Suor Juana fu “al di sopra della sua società e della sua cultura” ed era donna e religiosa, condannata all’impossibilità di declamare la sua dedizione, autentica e nuova, al “sapere disinteressato” facendosi prendere sul serio. Un ponte che lo spirito dei tempi ha lasciato a metà.
Paz scrive il Labirinto ebbro della lettura di Marx e Freud. È nato assieme al secolo breve, nel 1914. “Nacqui nel 1914, aprii gli occhi in un mondo retto da idee di violenza e iniziai a pensare in termini politici alla luce convulsa della guerra di Spagna”. Aveva partecipato, in Spagna, al secondo congresso degli intellettuali per la difesa della cultura, dove si approva una mozione di condanna per il Ritorno dall’Urss, con cui André Gide aveva condannato lo stalinismo. Paz non la vota ma “si rimprovererà per sempre il suo silenzio”, come scrive il suo amico e biografo Enrique Krauze. La causa della Repubblica spagnola la sente sua, nel 1939 arriva a fare a pugni con un tizio che, forse dopo un bicchiere di troppo, al ristorante aveva urlato “Viva Franco”.
Non s’incapriccia della Rivoluzione cubana ma resta, indiscutibilmente, uomo di sinistra. Il suo è un riformismo di lunga maturazione, fatto di tanti piccoli passi, di dubbi bonsai, fino alla rivelazione, che avviene negli anni Settanta, quando incontra Iosif Brodskij. Le origini autoritarie del marxismo stanno in Hegel, dice Paz, “no, in Descartes” gli risponde Brodskij e subito s’illumina un’amicizia fatta di letteratura russa e ammirazione sconfinata per un “perseguitato da un’ortodossia statale”. In quel momento il dissidente smette di essere una figura ipotetica e diventa una mano da stringere e una voce da ascoltare. Più o meno nello stesso periodo, racconta Krauze, legge Solženicyn e quella lettura “chiude il cerchio del cambiamento e comincia quello della contrizione”. “Codardo, non ho mai visto il male che avevo davanti”, si rimprovera. Il “Notturno di san Ildefonso” ha tutta l’intensità della confessione: “Il bene, volemmo il bene:/ raddrizzare il mondo./ Non ci mancò dirittura:/ ci mancò umiltà./ Ciò che volemmo non lo volemmo con innocenza./ Precetti e concetti,/ superbia di teologi:/ colpire con la croce,/ fondare con il sangue,/ edificare la casa con mattoni di crimine,/ decretare la comunione obbligatoria.”
“Le idee si dissipano/ rimangono gli spettri:/ verità del vissuto e sofferto.” Se teneva gli occhi chiusi, non era per opportunismo, ma per entusiasmo. Paz ha conosciuto appena il padre ma, forse proprio per questo, ne portava sulle spalle il fardello, il mito della Rivoluzione non come spettacolo al quale assistere ma come rito da celebrare. Il suo modello di intellettuale militante lo aveva in casa: suo padre e ancor prima suo nonno, Ireneo Paz, che combatté le guerre di riforma “con la spada e con la penna”, fondatore di riviste, autore di una trentina di libri. Anche Octavio fonda e dirige riviste, oltre ad avere una produzione saggistica che a passarne in rassegna gli argomenti (scrive Mario Vargas Llosa) vengono le vertigini: Claude Lévi-Strauss, Marcel Duchamp, l’arte pre-ispanica, Ortega y Gasset, Sartre, gli haiku di Basho e le sculture erotiche dei templi indù. Nel libro dedicato a Suor Giovanna della Croce, trent’anni dopo il Labirinto, Paz torna a riflettere sul Messico e, più in generale, sull’America latina. È l’indifferenza in materia religiosa che “caratterizza l’espansione imperialista nell’era moderna”. Pensate all’India, suggerisce: “per i conquistatori musulmani, l’indiano convertito era un ‘fratello’; per l’amministratore britannico, l’indiano cristiano continuava a esser un ‘nativo’”. Al contrario la Spagna costruisce la sua pretesa di dominio sull’evangelizzazione ma in una cornice religiosa che assorbe le culture precedenti. Mentre nell’America anglosassone la religione approda come istanza di libertà dalla Chiesa di Stato, nell’America spagnola col Vangelo viene portata l’idea di una società organica (come ha spiegato Loris Zanatta ne Il populismo gesuita), che è una sorta di “associazione di sottosocietà e sottogruppi” e con essa si instaura un ordine che “non tollerava le eresie né la disobbedienza all’autorità del monarca e dei suoi rappresentanti ma accettava tutti i particolarismi”.
Il nonno di Paz si era ribellato contro quell’idea di società, suo padre aveva cercato di tra-sfigurarla, “volendo il bene” al seguito di Zapata. Paz da giovane segue il padre, ma più matura e più comprende il nonno, pur mantenendo un suo senso del religioso e del mistero e, soprattutto, una forte diffidenza per la tecnica, la modernità e, in fin dei conti, l’altra America, quella che sta a nord del confine e della quale apprezza i lauri e gli inviti ma che avverte come materialistica, consumistica, lontana.
Paz è sempre diffidente verso lo Stato interventista e accentratore che il Partito Rivoluzionario Istituzionale va costruendo, a partire dal 1929, da principio più perché lo vede come un tentativo di modernizzazione e quindi di tradimento dell’identità messicana, poi perché ne disapprova l’autoritarismo e solo alla fine, a partire dagli anni Settanta, perché ne coglie tutte le contraddizioni. È in quel momento che, in due parole, riesce a farne il ritratto perfetto: l’orco filantropico. Fino al ’68, Paz per l’orco ci lavora, è un funzionario, fa carriera diplomatica, è persino ambasciatore in India. Se ne va in polemica col modo in cui il governo seda le proteste studentesche. Negli anni Settanta, alla sua rivista Vuelta collaborano fra gli altri Carlos Zaid e Enrique Krauze, l’uno e l’altro di recente messi alla gogna da Lopez Obrador come “conservatori”. Krauze conia la formula “democrazia senza aggettivi” per stanare il PRI, Zaid comprende prima di altri come il boom petrolifero sia una maledizione per il Messico, concentrando risorse nelle mani della classe politica.
La sua esperienza all’interno di una grande burocrazia ispira a Paz riflessioni amare. L’orco filantropico costruito dal PRI (“una gigantesca burocrazia, una macchina di controllo e manipolazione delle masse”) non è che un esempio “di un fenomeno universale e minaccioso: il cancro dello statalismo”. In Messico la modernizzazione incompiuta fa sì che tutto il potere dello Stato moderno venga messo al servizio della distribuzione di privilegi. Lo stesso funzionario che la mattina impartisce ordine per scuotere il Paese dal torpore, il pomeriggio tutela i membri della sua camarilla. Il mostro e il riformatore convivono senza problemi, sotto le insegne del bene comune. Per Paz, “la cosa più pericolosa non è la corruzione quanto invece le tentazioni faraoniche dell’alta burocrazia, contagiata dalla mania di pianificazione del nostro secolo”.
“La grande realtà del secolo ventesimo è lo Stato. La sua ombra copre tutto il pianeta. Se c’è un fantasma che si aggira per il mondo, non è quello del comunismo ma quello della nuova classe universale: la burocrazia”. Una classe “caratterizzata dal monopolio non solo del sapere amministrativo ma anche del sapere tecnico”.
In una raccolta del 1990, Pequenia cronica de grandes dias, Paz abbozzerà un’idea di “Stato giusto” che “non è onnipotente e molte volte è fallimentare; sa che il rimedio è nel libero gioco delle forze sociali. Confida nel duplice controllo del mercato e della democrazia”. Quali ne fossero e quali ne siano le prospettive, è difficile a dirsi. Di Paz ci rincuora l’idea, maturata col rifiuto del materialismo storico, che “la storia è il regno dell’imprevisto”, che sono gli eventi a sconvolgere gli schemi più grandiosi. E di Paz dovrebbe illuminarci l’idea che “la libertà è qualche cosa che si esercita”, “una possibilità che si realizza ogni volta che un uomo dice no al potere”. Claustrofobico di ogni ortodossia, Paz non rinnega mai se stesso ma esibisce le ferite delle sue vecchie illusioni. Evidentemente, ci teneva a dar conto dei no che aveva imparato a dire.
da Il Foglio, 5 dicembre 2020