Lo stallo in cui si trova un'università restia ad accettare le sfide del mondo contemporaneo
1 Aprile 2025
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Ha suscitato dibattiti, nei giorni scorsi, quel dato dell’ILO (l’agenzia dell’Onu che si occupa del lavoro) secondo cui da anni l’Italia conosce un forte calo dei salari, che dal 2008 a oggi hanno perso ben l’8,7%. Le ragioni di questo diffuso impoverimento sono molte, a partire dal fatto che nel nostro Paese regolazione e tassazione soffocano libera iniziativa e voglia di fare.
Un’altra causa spesso ignorata, però, e di cui si parla poco, è il fatto che quella italiana è una società a bassa scolarizzazione. Nell’Unione europea, soltanto la Romania ha meno laureati di noi in rapporto alla popolazione. E senza dubbio esiste un legame evidente tra formazione e produttività, oltre che tra produttività e redditi.
C’è allora bisogno che il mondo universitario sappia farsi più attrattivo, ma questo non sempre è facile: per una serie di resistenze ideologiche e corporative. Da noi, in particolare, prevale in molte discipline un atteggiamento che sottovaluta la dimensione pratica e operativa; e questo allontana molti potenziali studenti.
Per giunta, gli atenei appaiono spesso “autoreferenziali”: in altri termini essi sembrano più focalizzati a servire gli interessi e le aspirazioni dei dipendenti invece che quelli del pubblico. Non a caso, da decenni sono stati cancellati quei corsi serali che nel passato permettevano a tanti di coniugare studio e lavoro. In sostanza, quello universitario è un mondo piuttosto chiuso e conservatore, che fatica ad aprirsi all’innovazione e alle esigenze dei tempi attuali.
Per questo non sorprende che, da un lato, le università telematiche stiano conoscendo un notevole successo (permettendo a molti giovani in più di studiare) e che, dall’altro, siano costantemente sotto attacco da parte dei rettori e dei docenti delle università tradizionali, che non amano per nulla questa forma di competizione. Eppure è necessario che la percentuale dei laureati cresca, se vogliamo che l’economia italiana funzioni meglio e sia maggiormente competitiva. Ed è ovvio che soltanto un’offerta più varia e dinamica può ottenere questo risultato.
Per giunta, non bisogna dimenticare che la formazione ha sempre funzionato da ascensore sociale; e senza un costante ricambio (almeno in parte) delle classi dirigenti, è difficile che una società rimanga dinamica. In una società con pochi laureati, insomma, le posizioni eminenti rimangono sempre a disposizione dei figli di quanti oggi si trovano ai piani alti della società.
Per tornare a crescere c’è allora bisogno di maggiore innovazione nell’accademia, che deve coniugarsi con le esigenze del mondo del lavoro. Mentre nelle società più dinamiche è forte la consapevolezza che l’università di ieri è defunta e tutto deve cambiare (nelle forme e nei contenuti), da noi si continua a proteggere un sistema baronale che ha fatto il suo tempo e che genera più problemi che soluzioni.
La già citata demonizzazione degli atenei online – che offrono opportunità a decine di migliaia di lavoratori e stanno innovando in profondità la didattica – è forse la manifestazione più evidente dello stallo in cui si trova un’università restia ad accettare le sfide del mondo contemporaneo