Non si può negare la loro funzione di ridurre le diseguaglianze sociali
Il tema delle università telematiche sta diventando in Italia un ulteriore terreno di scontro. La Cgil in un suo convegno tenuto il 10 aprile ha presentato un documento che addirittura si intitola “Il piano inclinato.
Atenei for profit, università telematiche e sedi distaccate”. Mancava solo che il motto della manifestazione fosse “Fermiamo il declino”.
Andiamo con ordine. Le università cosiddette telematiche sono state istituite nel 2003 e sono già minuziosamente regolamentate. Peraltro, il ministero stesso ha stabilito, all’articolo 3 del decreto, che questi atenei devono garantire “un alto grado di indipendenza del percorso didattico da vincoli di presenza fisica o di orario specifico”. In altre parole, insegnamento online e asincrono, cioè non in diretta ma in differita, proprio per permettere agli iscritti, soprattutto gli studenti lavoratori, di usufruire delle lezioni in qualsiasi momento e da qualsiasi località.
Tra alterne vicende, ben ricostruite in un paper scritto da Carlo Lottieri e Marco Bassani per l’Istituto Bruno Leoni, si è arrivati ai giorni nostri con il DM 1154 del 2021 che ha rivisto i criteri di accreditamento e valutazione degli atenei e dei corsi di laurea nonché il numero di docenti e la proporzione tra quelli a tempo indeterminato e i professori a contratto prevedendo criteri più stringenti. Nel frattempo, a causa del Covid, il mondo stava cambiando velocemente tal che gli studenti delle università digitali hanno cominciato un’ascesa finora inarrestabile nel numero degli iscritti. Oggi sono circa 250 mila (nel 2011 erano 44 mila, un aumento del 560%) e rappresentano il 13% del totale degli alunni del sistema universitario.
Una delle caratteristiche dei laureati delle accademie online è che l’80% ha più di 23 anni, mentre in quelle in presenza la proporzione si inverte: solo il 20% si laurea dopo quell’età, il che conferma come le prime siano un mezzo molto importante per chi persegue una formazione permanente nel corso della vita lavorativa.
Ma insomma quali sono le contestazioni che vengono mosse alle università telematiche? Le solite che spuntano in qualsiasi settore della vita economica e sociale dalle corporazioni incumbent ai nuovi entranti: manca la qualità e si fa concorrenza sleale nei confronti degli altri atenei, lauree facili e a basso prezzo. Ci si affida a logiche di mercato che non possono valere nel campo dell’istruzione e a riprova di ciò si citano vari intoppi giudiziari in cui sono incorsi le università digitali o i loro fondatori (intoppi che capitano anche alle statali: basti pensare ai 39 milioni che l’Università di Torino dovrà restituire ai suoi studenti).
Partiamo dalle rette. Non c’è dubbio che,nonostante la maggior parte degli atenei telematici siano privati (non tutti, basti citare l’Unitelma Sapienza, la cui esistenza già mette in dubbio il presupposto del “profitto”), il costo per un fuorisede di frequentare un’università, specie in città costose, è imparagonabile. Uno studio della Fondazione Einaudi conclude che gli studi accademici digitali costino circa un quarto rispetto ai tradizionali.
Sul tema della qualità, si afferma che il rapporto docenti-studenti nelle telematiche è troppo basso e lo si vuole parificare a quello degli atenei tradizionali. Non si tiene conto però che la minor necessità di professori è strutturale: la singola lezione online può essere usufruita ripetutamente da centinaia e centinaia di allievi, quella di persona no. Inoltre, parlando di concorrenza sleale, le università private online non hanno accesso agli 8 miliardi di fondi pubblici destinati a quelle pubbliche, il che vuol dire che aderire agli stessi requisiti farebbe aumentare vertiginosamente le rette, sfavorendo le fasce più povere della popolazione.
D’altronde, il ministero già accredita e poi tramite l’Anvur certifica la qualità degli atenei online con giudizi che vanno da “molto positivo” a “insoddisfacente”. Il giudizio pessimo non è stato appioppato a nessuna delle 11 università digitali riconosciute e il penultimo gradino, “condizionato”, solo a due, le quali hanno l’obbligo di rimettersi a posto. Quindi, se già c’è un controllo pubblico o si pensa che non sia efficiente e credibile – e allora non si capisce perché ulteriore regolamentazione e controlli sempre pubblici dovrebbero essere la panacea – oppure basta rendere i risultati più trasparenti.
Bassani e Lottieri notano poi che la percentuale di chi si laurea con voto superiore a 106/110 è del 49,6% negli atenei in presenza e del 28,2% nelle telematiche, il che dovrebbe quanto meno gettare un seme di dubbio su chi possa qualificarsi “diplomificio”.
In conclusione, le università online come tutti i fenomeni in crescita hanno difetti cui è bene porre rimedio, ma la loro funzione di ridurre le diseguaglianze sociali consentendo l’accesso a fasce più ampie di popolazione all’istruzione superiore è innegabile: una crociata dirigista che rendesse loro la vita impossibile sarebbe dannosa per tutti.