9 Giugno 2014
Il Sole 24 Ore
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
New York, attorno al 1820. Greene Street è una bella strada: ci vivono le famiglie in vista, al meglio delle possibilità dell’epoca. Tempo pochi anni, e diventa invece un sito fiorente per un settore economico in grande crescita, il secondo in città per numero di addetti: la prostituzione. Le molte e ampie stanze delle vecchie case patrizie parevano fatte apposta per ospitare le alcove dei bordelli. Attorno al 1870, le cose cambiano di nuovo. Il quartiere diventa un centro dell’industria tessile, in ascesa grazie al rapido miglioramento delle comunicazioni e dei trasporti. Con la grande depressione, s’affretta il declino.
Avanti veloce fino agli anni Cinquanta. Robert Moses, mandarino della pianificazione urbanistica, vuole radere al suolo il quartiere. L’intento è quello di «ripulire gli slum» sostituendovi nuovi edifici, in parte a valore di mercato, in parte case popolari, realizzate sulla base di un disegno razionale e coerente. «La degradazione è talmente diffusa che non è possibile porvi rimedio, se non per mezzo di un’intervento concertato». C’è un solo modo di superare le brutture della povertà: farne tabula rasa.
Di diverso parere era Jane Jacobs, l’autrice della Vita e morte delle grandi città. Per Jacobs quella della pianificazione urbana era «una pseudoscienza» nella quale «una pletora di dogmi complicati sono stati eretti su fondamenta di nonsenso». Le città questi luoghi straordinari dove gli uomini mettono in comune i propri destini hanno uno sviluppo organico, sono vestiti tagliati e ricuciti di continuo addosso ai bisogni di chi ci vive. Bisogni che magari sfuggono, come dettagli minuscoli, ai pianificatori, che guardano il mondo in un diorama.
La battaglia di Greene Street la perse Moses, e la vinse la Jacob: e con lei i residenti che, in una società libera, riuscirono a far valere i propri diritti. Soho rimase com’era. Questo non significa che continuò ad imbruttirsi. Negli anni Settanta, a Greene Street aprirono trentatré gallerie d’arte. Negli anni Duemila, è venuto il turno dei negozi d’alta moda. L’imprevedibile storia di un quartiere della seconda città più ricca del mondo è la parabola inaspettata che Bill Easterly usa per spiegare lo sviluppo nel suo ultimo libro, The Tiranny of Experts.
Per l’autore de Lo sviluppo inafferrabile, il dibattito su come creare ricchezza nel Sud del mondo è naufragato al momento del varo. Complici le grandi organizzazioni internazionali, si è imposta una visione “tecnocratica” della crescita economica, quasi fosse un processo facilmente attivabile azionando le leve giuste. In questo senso, Easterly rifiuta una discussione tutta incardinata sulla polarità dei concetti di Stato e mercato.
Considera analogamente illusorie “soluzione di mercato” universali, basate in realtà sulle “migliori pratiche” maturate nel tarare e predispone incentivi e regole da parte dell’attore pubblico, e investimenti pilotati e aiuti allo sviluppo, frutto delle buone intenzioni dei pianificatori.
Il dibattito di cui Easterly sente la mancanza, e che affida alle icone di Friedrich von Hayek e Gunnar Myrdal, entrambi premiati col Nobel nel 1974 ma economisti i più diversi l’uno dall’altro, è quello dei diritti individuali contro il dirigismo. È la lezione di Greene Street. Se le persone sono sicure dei propri possessi, se possono protestare contro l’autorità, se possono ribellarsi a decisioni imposte loro in nome di una pretesa superiore razionalità dei pianificatori, allora la crescita è possibile. Non è “automatica”, e neppure è detto prenda il sentiero più prevedibile: l’innovazione non lo è, per definizione.
Nel distretto di Mubende, in Uganda, 20mila contadini sono stati costretti a lasciare le loro terre da soldati armati di fucile. Gli è stato detto che quei luoghi, da cui le loro famiglie avevano faticosamente cavato di che vivere per generazioni, non erano più loro. Ma di un’impresa inglese che vi avrebbe impiantato dei boschi per venderne il legname: progetto finanziato e promosso dalla Banca Mondiale, che non è soggetta ad alcuna giurisdizione. Per Easterly, non c’è piano, per quanto brillante, che possa valere il sacrificio dei diritti (inclusi i diritti di proprietà) di essere umani.
The Tyranny of Experts è un libro feroce sulla storia degli aiuti al Terzo mondo. Consegnare ai Robert Moses dello sviluppo, agli “esperti”, le sorti dei poveri del mondo è stato un errore imperdonabile. Costoro hanno inventato un fantoccio: un’idea di “sviluppo” che prescinde dalle istituzioni e dalla storia. Soluzioni chiavi in mano smerdabili a governi di destra e di sinistra, democratici e autoritari, a seconda di convenienze e interessi geopolítid.
Un’altra è la lezione che avremmo dovuto apprendere dalla nostra storia. La cosa peggiore che possa fare chi ha un problema, è intestardirsi a risolverlo. Invece abbiamo visto imporsi, con il tempo, una formidabile associazione di “risolutori di problemi”: il mercato, nel quale i bisogni degli uni incontrano i talenti degli altri, per realizzare soluzioni su misura e non prét-à-porter. La crescita passa dalla moltiplicazione delle opportunità di scambio, dal ramificarsi della divisione del lavoro, dal dipendere, tutti, sempre più da tutti gli altri. Gli scambi non si progettano: accadono. L’esperto militante rifiuterà con sdegno il messaggio di Easterly, che ribalta Marx: i tecnocrati hanno finora soltanto trasformato il mondo in diversi modi, ora si tratta d’interpretarlo.
Da Il Sole 24 ore, 9 giugno 2014
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