E’ il 4 novembre 1884. Per la prima volta, in questa notte elettorale i risultati dovrebbero arrivare, perlomeno ai diretti interessati, in tempo reale o quasi. E’ merito di un’invenzione brevettata otto anni prima da un ingegnere scozzese trapiantato negli Stati Uniti. Ma nella residenza del governatore dello stato di New York, uno dei due contendenti, il telefono non può squillare. Piove a dirotto e le reti telefoniche sono in tilt. La tecnologia non può rassicurare quello che sarà il ventiduesimo presidente degli Stati Uniti d’america. Siamo sul filo di lana. Il candidato democratico non lo sa ancora ma ha preso il 48,85 per cento del voto popolare, contro il 48,28 del candidato repubblicano. Nel collegio elettorale ha 37 voti di maggioranza, ma di questi 36 vengono dal suo stato, New York, dove la vittoria è di strettissima misura, 1.149 voti.
La vita politica di Grover Cleveland fu una strana avventura. Gli americani oggi lo ricordano soprattutto perché, durante quella campagna elettorale, venne accusato di aver messo al mondo un figlio illegittimo per consegnarlo a un orfanotrofio. Non si attenne al principio: negare sempre, anche l’evidenza. Una dozzina di anni prima, aveva avuto una breve relazione con una vedova, Maria Halpin, di poco più giovane di lui. All’epoca Cleveland aveva appena rinunciato a un secondo mandato come sceriffo della contea di Erie (Buffalo), compito nel quale egli si era distinto per la spietatezza verso ogni forma di corruzione. Halpin rimase incinta e, per quanto frequentasse diversi uomini, si convinse che il padre doveva essere proprio Cleveland (che era, fra i suoi amici, probabilmente l’unico scapolo). Il quale, a sua volta preoccupato che la donna, un’alcolista, potesse nuocere al bambino, andò da un giudice e fece ricoverare lei e spedire, a sue spese, lui in un orfanotrofio. Che il figlio fosse suo o meno, non si può sapere con certezza. In una nuova biografia di Cleveland, Troy Senik azzarda che avrebbe potuto essere figlio del suo amico Oscar Folsom, che aveva modi più allegri e spregiudicati del “buon Grover”. Senik offre al lettore una semplice deduzione, senza prove. Ma insiste invece che su un altro versante le prove sono chiare e Cleveland non aveva violentato Maria Halpin, come si è insinuato in un esperimento piuttosto periferico di “cancel culture”.
Torniamo al 1884. I democratici, che non entravano alla Casa Bianca dai tempi di James Buchanan, il predecessore di Lincoln, scelgono Cleveland perché la sua reputazione specchiata può pescare voti in campo avverso, visto che il repubblicano James Blaine ha fama d’essere un disinvolto. Poi arriva lo scandalo Halpin. Il canovaccio già scritto della campagna elettorale sembra andare in frantumi. I collaboratori più stretti del candidato chiedono istruzioni, come comportarsi, cosa dire, quale storia gettare in pasto all’opinione pubblica. Cleveland, che intanto continua a passare le sue giornate allo scrittoio del governatore dello stato di New York, anziché una strategia offre loro un principio: “Soprattutto, dite la verità”.
Senik, che ha lavorato come speechwriter per George W. Bush, guarda con ammirazione a un presidente allergico alla propaganda.
Cleveland conduceva una vita monacale. Sin dai tempi in cui era sceriffo, la sua giornata di lavoro cominciava alle 8 del mattino e finiva alle 3 di notte. Le uniche distrazioni coincidevano con i pasti. Centoventi chili, spalmati su un metro e ottanta di altezza, Cleveland lavorava e mangiava, mangiava e lavorava. I ritratti ne rivelano le battaglie con le giacche che non si chiudono più e i bottoni perennemente precari. Parlava con una voce stridula, nonostante l’aspetto tenorile. Ma se il sottotitolo alla biografia di Senik è “la vita turbolenta e l’improbabile presidenza di Grover Cleveland”, il titolo è “A Man of Iron” (New York, Threshold Editions, 2022, pp. 368). Un uomo di ferro. Ferreo come le convinzioni che fece valere all’interno di una carriera del tutto imprevista. Cleveland, racconta Senik, era un politico di princìpi e che seppe tenervi fede con imperturbata costanza e una certa indifferenza rispetto al proprio individuale destino. “Fai quel che devi, accada quel che può”. La cosa che più colpisce della sua storia è come tutti quelli che di norma sono orpelli logori, la retorica del servitore dello stato, la diligenza del buon padre di famiglia nel gestire la cosa pubblica, per Cleveland non erano chiacchiere da conferenza stampa, medaglie di cartone da appuntarsi sulla giacca con solennità degna di ben altre onorificenze. L’esperienza, o se si vuole quel tanto di cinismo che serve per stare al mondo, ci suggerisce che spesso sono proprio gli avventizi della politica i cialtroni più impenitenti. Cleveland credeva a ogni parola dei suoi, peraltro laconici, discorsi e anziché chiedere, magari con un bel sorriso protohollywoodiano e una battuta ammiccante, un atto di fede nella sua sincerità, la dimostrava come un leader dovrebbe e potrebbe fare: con gli atti. Henry L. Mencken, forse il più grande letterato americano d’inizio secolo, era un fustigatore di Presidenti. Per lui Franklin Delano Roosevelt esibiva “ogni qualità che gli idioti stimano nei loro eroi”. Di Wilson, di Hoover, di Teddy Roosevelt pensava grosso modo lo stesso. Ecco, per Mencken, in Cleveland “tutte le virtù immaginarie dei puritani divennero reali”.
Discendente di quaccheri arrivati nel nuovo mondo già nel Seicento, Grover è il quinto figlio di un pastore presbiteriano del Connecticut, uomo di eccellente cultura che aveva studiato a Yale e Princeton ma campava del magro salario della sua professione. Il giovane Grover non frequenta l’università e gli tocca, da quando ha sedici anni, di provvedere alla famiglia dopo la morte del padre. Per questo, nel 1863, si avvale della possibilità, legale all’epoca, di pagare un immigrato polacco per combattere al suo posto nella Guerra civile. Non fa grandi lavori, per un certo periodo è maestro di scuola in un istituto per ciechi, ma il poco che guadagna serve alla madre e alle sorelle. Gli offrono un sussidio per continuare a studiare, a patto che segua le orme del papà. Rifiuta con garbo. Della religione paterna gli resta l’impianto culturale, l’etica del lavoro, l’attenzione e lo scrupolo ossessivo in ogni cosa che fa.
Come molti giovani spiantati, punta all’ovest per fare fortuna ma per provvidenziale caso si ferma a Buffalo, dove lo zio Lewis Allen, intrigato dall’intelligenza del nipote e perplesso dal suo essersi messo in viaggio per la costa occidentale senza uno straccio di piano e nemmeno una meta precisa, lo aiuta a farsi una posizione. Entra in uno studio legale, diventa avvocato nel 1859, poi è vice procuratore della contea di Erie e sceriffo. La sua carriera politica è fulminea: assume la carica di sindaco di Buffalo nel gennaio 1882, l’anno dopo è governatore dello stato di New York, nel 1884 si ritrova in gara per la presidenza. Quando la carica di governatore gli vale una residenza ufficiale, a quarantacinque anni suonati, per la prima volta ha una casa tutta per sé senza stare a pigione da altri.
Raccontata così, sembra la rotta perfettamente tracciata di un abile navigatore del potere. Invece è un’ascesa abbastanza casuale, inaspettata, di un uomo perbene per cui l’onestà fu la miglior politica. Sconfitto dal repubblicano Benjamin Harrison nel 1889, tornerà alla Casa Bianca quattro anni dopo. Caso finora unico (ma Donald Trump piacerebbe imitarlo) di presidente americano che abbia fatto due mandati non consecutivi.
Le sue convinzioni sono ferree. Convinto che non spetti al potere esecutivo fare le leggi, Cleveland crede che il legislativo debba restare nel solco tracciato dalla Costituzione. Lo strumento principe della sua azione politica è il veto. E’ “un serial killer di leggi”. Da governatore si confronta con un’assemblea controllata dal suo stesso partito. Fa valere per quarantaquattro volte il suo veto in dodici mesi scarsi. Da presidente, ricorre più volte al potere di veto lui che tutti i suoi predecessori ed è il secondo in tutta la storia americana per veti esercitati, dopo Franklin Delano Roosevelt che però stette in carica dodici anni.
Quand’era sindaco di Buffalo, “fece persino quello che sembrava un passo politicamente suicida: porre il veto a uno stanziamento per i festeggiamenti del 4 luglio da parte del Grand Army of the Republic, l’influente gruppo di veterani unionisti della Guerra Civile. Gratificò l’organizzazione di grandi elogi ma sostenne che ‘il denaro contribuito dovrebbe essere un dono gratuito dei cittadini e dei contribuenti, e non dovrebbe essere estorto loro con le tasse. Questo perché lo scopo per cui viene chiesto questo denaro non coinvolge la loro protezione o il loro interesse quali membri della comunità’”. Da Presidente, si scorna di nuovo coi veterani. Le pensioni per gli ex soldati unionisti sono allora la seconda voce più rilevante della spesa del governo federale, subito dopo il servizio del debito. Ma anche quella spesa previdenziale diventa una specie di racket: con l’Arrears Act firmato dal Presidente Hayes nel 1879, le pensioni diventano retroattive alla data in cui si è stati feriti, anziché cominciare da quella in cui si è fatta domanda. In molti casi in cui i veterani si sono visti rifiutare le richieste dall’ufficio pensioni, si rivolgono al loro membro del Congresso, che presenta una proposta di legge per concedere loro il pagamento attraverso approvazione legislativa diretta. In questo ginepraio Cleveland entra con la grazia di un elefante in cristalleria. Delle 414 volte in cui Cleveland respinge al mittente una legge, più della metà (228) si tratta di leggi pensate per attribuire direttamente una pensione. “Il fervore con cui Cleveland respingeva quelle norme non era tanto l’atto di un controrivoluzionario quanto quello di un revisore dei conti particolarmente irritabile”. Difatti, Cleveland approva il 90 per cento dei provvedimenti che hanno per oggetto la concessione di una pensione: ma lo fa dopo averli passati al setaccio, verificando che effettivamente il beneficiario abbia i requisiti adeguati.
Sempre Mencken: “Cleveland, che non ebbe mai sentore dell’imperativo categorico di Kant e che era altrettanto ignaro in tema di teoria politica, guardava sempre al calvinismo della sua infanzia. Il calvinismo a cui aderiva era una versione depurata da tutti i suoi originari orrori. Dio, pensava, ha disposto l’ordine del mondo e i suoi decreti debbono rimanere per sempre imperscrutabili, ma c’era nondimeno molto da dire a vantaggio del duro lavoro, di un ragionevole ottimismo, e di una vigorosa fiducia in ciò che sembra giusto. Il dovere, nella sua essenza, sarà pure trascendente ma i suoi dettami sono emanati nell’inglese più chiaro e un onest’uomo non può sfuggirvi”.
Ancora trent’anni dopo la fine del secondo mandato di Cleveland, il bilancio americano era materia di cui Calvin Coolidge e Andrew Mellon potessero parlare fra loro, con taccuino e penna alla mano. Qualcosa del genere, oggi, ci risulta inimmaginabile, forse anche perché non sono stati poi molti i Cleveland, i leader che del rispetto dei conti pubblici hanno fatto un’ossessione.
Su una delle grandi questioni del tempo, libero scambio o protezionismo, prese posizione dopo essere arrivato a Washington ed essere rimasto scioccato dalla rapacità delle imprese che domandavano “protezione”. I dazi all’epoca erano la principale fonte di entrate del governo ma danneggiavano i lavoratori contribuendo a prezzi più elevati, checché dicessero i sostenitori della “protezione”. Cleveland alzò la bandiera del libero scambio e si guadagnò l’ostilità permanente delle aziende protette.
Non c’è un monumento a Grover Cleveland a Washington e non esiste neanche un museo, pur piccolo, che gli sia intitolato. Non ci sono palazzi o magioni da visitare, come Monticello o Mount Vernon. In politica internazionale, i suoi principi erano quelli “di Monroe, di Washington e di Jefferson: pace, commercio e un’onesta amicizia con tutte le nazioni, alleanze permanenti con nessuna”.
La presidenza americana è diventata col tempo un’istituzione imperiale, di cui la grandeur è un tratto essenziale. L’umiltà è un peccato difficile da redimere e un presidente umile non si fa ricordare.
Bisogna ammettere che c’è qualcosa di scomodo, nella figura di Cleveland, che ce lo rende fastidioso. Se esiste, nell’America di oggi, un erede di Grover Cleveland, è più probabile somigli a Edward Snowden che agli ultimi inquilini della Casa Bianca. Le sue posizioni e ancor più le sue ossessioni ci ricordano che ci sono temi che oggi con troppa facilità liquidiamo come “populisti”, che hanno invece radici liberali. L’idea di aprire come una scatoletta di tonno uno stato che ancora ne aveva le dimensioni, per evitare che la spesa pubblica diventi ancor di più terreno di caccia degli interessi privati. Il rispetto del denaro del contribuente che esige una disciplina ferrea della finanza pubblica. La trasparenza non come catasta di adempimenti formali ma come responsabilità davanti al cittadino, al contribuente, all’elettore. Il gusto della chiacchiera e dei massimi sistemi ci fanno perdere di vista come le istanze liberali più autentiche facciano perno su valori sorprendentemente concreti. Forse perché il ferro di certe convinzioni si può forgiare solo nelle fornaci del carattere.
da Il Foglio, 1 ottobre 2022