Sono trent’anni che il Parlamento europeo esprime il suo consenso sul rinnovo della Commissione, eppure l’attenzione al voto di ieri segna qualche differenza di peso. Ursula von der Leyen è la terza Presidente riconfermata dal Parlamento, dopo Delors nel 1993 e Barroso nel 2009. Ma il suo rinnovo non è una questione nominale. Alimenta anzi l’impressione di una tendenza «presidenziale» della carica che ha caratterizzato il suo primo mandato. L’accentramento con cui UvdL ha gestito l’organizzazione della Commissione e le sue competenze, il modo in cui si è appropriata della scena sulle principali questioni politiche anche al di là delle funzioni della Commissione, a partire dalla guerra in Ucraina, fanno il paio con la scelta di raddoppiare il numero delle vicepresidenze esecutive, buona a dividere e imperare.
Tuttavia, questo rafforzamento del ruolo della Presidente, che mai come ora è un volto così noto e riconoscibile, non corrisponde necessariamente a una autonoma capacità politica. Non si è fatto mistero di come sia stato complicato raggiungere l’accordo politico sulla nuova compagine. Gli equilibri tra famiglie politiche si sono spostati rispetto alle precedenti elezioni e hanno reso più difficile il lavoro di composizione della Commissione, come dimostra il fatto che ieri sono mancati 31 voti rispetto a luglio, quando von der Leyen era stata confermata. Nondimeno, non sono quei trenta voti a fare la differenza. Von der Leyen ce l’ha fatta. Delle due l’una, quindi. O siamo di fronte a una leader europea di rare doti politiche, capace di catalizzare diverse anime euro-nazionali, o siamo di fronte a un’ottima negoziatrice e mediatrice di volontà decise altrove.
Ursula e la sua Commissione si sono ritagliate negli anni un ruolo determinante nella elaborazione delle politiche pubbliche europee, di cui il Next Generation Eu è solo un primo esempio e la riforma del Patto di Stabilità l’ultimo. Apparentemente, questa rilevanza è espressione di una dimensione politica che l’Ue ha oggi e non aveva ieri, anche grazie al protagonismo di UvdL. Se si trattasse solo di questo, saremmo di fronte a un cambio rilevante di identità dell’Unione europea da lei guidato, rispetto al quale la formula dei Trattati rischia di essere inadeguata.
Saremmo cioè di fronte a un’Europa capace di esprimere un indirizzo e di finanziarlo, in assenza però di una teoria e una pratica di limitazione del potere che è l’essenza delle democrazie. In sintesi, manca ancora una forma di governo che consenta di riconoscere chi decide cosa e con quali forme di bilanciamento tra poteri. L’alternativa è che la credibilità e l’autorevolezza della Presidente dipendano, più che dalla sua leadership, dalla capacità di mediare tra le volontà dei governi e dei partiti: un’Europa che fa di più, ma su mandato di (alcuni) leader nazionali. La forza di UvDL rischia in questo caso di essere la forza di chi sa non deludere le diverse anime politiche in Europa e tra gli Stati, con i loro difficili e soprattutto poco visibili equilibri.
Il modo in cui von der Leyen ha gestito questi mesi di ricerca del consenso da parte dei capi di governo (solo per fare due esempi, l’affare Breton in Francia o Albania in Italia), la facilità con cui ha frenato negli ultimi mesi sul suo Green Deal sono forse il segno di qualcosa di diverso dall’avere una visione politica. Se questa seconda alternativa dovesse dimostrarsi la spiegazione del suo successo, ci troveremmo di fronte al rischio opposto al precedente. Non quello di un abito istituzionale stretto per un’Europa che vuole diventare grande, ma quello di un’Europa che naviga a vista fingendo di essersi emancipata dalle sovranità statali e dalle loro beghe politiche. Prima di parlare di investimenti e debito comune, dovremmo forse capire con chi abbiamo a che fare.