Anche un economista può gustare il sottile piacere di diventare una rockstar. Certo, il fenomeno è così raro che, quando avviene, è il caso di porsi qualche domanda. Soprattutto se quel successo è collegato con un saggio di economia che sfiora (nella versione originale) le mille pagine, contiene un’analisi che parte dall’anno Mille ed è scritto da un francese che miete tifosi negli Stati Uniti. Un mix quantomeno inusuale del quale si può fregiare Thomas Piketty grazie a Le Capital au 21e siècle.
Numeri da bestseller i suoi: l’edizione inglese, realizzata con parecchi mesi d’anticipo rispetto al programma originario proprio per le numerosissime richieste, è da 70 giorni nella Top 100 di Amazon (mentre scriviamo è secondo assoluto e primo per distacco nella sezione Economia, nonostante le copie siano al momento esaurite). E poi un tour fra le maggiori città Usa e nelle principali università del Paese. Oltre a un lungo elenco di economisti a tesserne le lodi.
Un humus adatto per la sua analisi
I contenuti nel libro di certo non mancano. A partire da un accento sulle cause della disuguaglianza spesso sottovalutato nel dibattito economico. Ma da soli concordano analisti di diversa estrazione i contenuti non bastano a spiegare tanto successo. «Personalmente non credo che Piketty sia il nuovo Rawls, cioè un autore in grado di plasmare il corso della riflessione per una generazione», spiega Alberto Mingardi, direttore dell’Istituto Bruno Leoni, think tank di chiara impostazione liberista.
«Il segreto del suo successo non sta nei dati che fornisce, piuttosto nell’esporre una tesi che ha già avuto fortuna in passato: l’idea che il capitale sia essenzialmente parassitario. E la tesi viene presentata ín un momento propizio, “preparata” da anni di polemiche sui bonus dei banchieri e sullo stipendio dei calciatori. A dimostrazione che le ideologie saranno anche morte, ma la gente ne sente l’esigenza». Cruciale sarebbe anche il pubblico di lettori ai quali si rivolgerebbe: «L’ambiente della sinistra americana che, negli ultimi anni, si è andata radicalizzando per iniziativa di alcuni pensatori. Primo fra tutti Paul Krugman, probabilmente il più efficace intellettuale pubblico al mondo. È il suo endorsement a fare la fortuna di Piketty».
Che le tesi dell’economista francese siano una risposta a un’esigenza diffusa almeno in una parte degli studiosi d’Oltreoceano è confermato dallo stesso Krugman. Che più volte si è speso in pubbliche (quanto appassionate) lodi del nuovo “Capitale”. L’ultima in ordine di tempo, quella alla City University of New York: «Se il libro ci colpisce con tanta forza è perché ne avevamo bisogno. Le élite finanziarie hanno avuto la capacità di diffondere un’ideologia a giustificazione dei loro privilegi: ci hanno spiegato che le disuguaglianze erano conseguenza dei diversi livelli d’istruzione mentre le performance individuali non hanno più alcun collegamento con i guadagni dei top manager».
Una riflessione che lo accomuna a Joseph Stiglitz, premio Nobel 2001: «Piketty ha osservato nello stesso incontro dimostra che le disuguaglianze non sono l’esito di forze economiche inevitabili, ma un prodotto delle politiche. Qui negli Stati Uniti pensiamo di essere nella società meritocratica per eccellenza e invece stiamo diventando una società di tipo ereditario, con una mobilità sociale inferiore persino a quella di alcuni Stati europei». Analisi impietosa che però sta facendo breccia anche nei palazzi del Potere (Piketty è stato invitato a parlare anche dal Center for America Progress, l’istituto di ricercatori democratici più vicino all’amministrazione Obama) tanto da creare l’humus perfetto per il trionfo. «La fonte del successo del libro andrebbe ricercata nello Zeitgeist, lo spirito del tempo», osserva Dani Rodrik, professore di Scienze sociali all’Institute for Advanced Study di Princeton, in New Jersey. «Dieci o persino cinque anni fa, all’indomani della crisi finanziaria globale, non avrebbe avuto lo stesso impatto, anche se le prove addotte sarebbero state identiche. Negli Usa aleggia oggi un senso di disagio per la crescente disuguaglianza. Sembra che ora negli Stati Uniti sia possibile ammettere che la disuguaglianza è il principale problema da affrontare. Ecco perché Piketty è stato accolto con più calore qui che nel suo Paese natale». Anche (alcuni) conservatori si rallegrano
Ma a contribuire a quel calore ci sono anche analisti a luí critici. Che vedono nelle proposte pikettiane un possibile stimolo ai settori conservatori per uscire dall’angolo degli attacchi sterili e produrre controproposte efficaci, «che os- serva David Brooks, columnist del New York Times premino la crescita, i risparmi e gli investimenti invece di punirli come vorrebbe Piketty. Sostengano le imposte progressive sul consumo anziché una tassa sul capitale. Sottolineino che il modo storicamente dimostrato per ridurre la disuguaglianza è l’elevazione delle persone attraverso il capitale umano e non scaraventando in basso chi sta più in alto».
Perché è forse proprio questo il grande merito dell’ex consigliere economico di Ségolène Royal (tutt’altro che apprezzato dall’attuale inquilino dell’Eliseo, Hollande). Riuscire a innovare teorie e ricette senza strappare con il pensiero convenzionale. «Il “Capitale” di Piketty è diventato un best seller commenta Giuseppe Di Taranto, docente di Economia politica alla Luiss di Roma proprio perché sa rimanere nell’ambito del maistream neoclassico, affrontando il tema, tradizionalmente sottovalutato, della redistribuzione della ricchezza. E così facendo risponde a esigenze che soprattutto negli Usa sono diffuse, in modo bipartisan».
Da Valori, 26 giugno 2014