25 Novembre 2024
Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Economia e Mercato
L’elezione di Donald Trump ha fatto scattare tutta una serie di riflessi condizionati. Fra le tante preoccupazioni che occupano le pagine dei giornali, c’è quella sull’effetto dei dazi sull’economia europea. Il prossimo presidente degli Stati Uniti ha più volte ribadito la sua fiducia granitica in questo strumento, forte anche della convinzione, per la verità un po’ curiosa, che il dazio sia pagato da chi esporta, ovvero da chi vende, e non da chi importa, cioè da chi compra. I dazi sono stati per secoli l’unico strumento che, per quanto imperfetto, serviva davvero a finanziare gli Stati. Prima delle ritenute in busta paga, era arduo farsi pagare dai contribuenti l’imposta sul reddito. Al contrario, il passaggio dei beni in dogana consentiva di vederli, pesarli e misurarli, e quindi tassarli. Nella seconda metà del Novecento il fisco ha privilegiato le imposte dirette su quelle indirette, perché è più facile farsi pagare dai datori di lavoro, che sono relativamente pochi, che da milioni di contribuenti.
I dazi nel mondo di oggi possono avere effetti più dirompenti di quanto non fosse cent’anni fa, perché la produzione si è internazionalizzata. La maggior parte di quel che si scambia fra Paesi non sono beni pronti per finire in negozio, bensì cose che servono a fare altre cose: prodotti intermedi, macchinari, componenti di macchinari, eccetera. Un dazio piazzato su una serie di componenti di un macchinario che serve a fare altri macchinari a loro volta essenziali per realizzare un bene di consumo può avere effetto anche sul prezzo di quel bene, per quanto sia tanto «lontano» dal momento in cui il dazio viene esatto.
Immaginiamo che la nuova amministrazione proceda come annunciato, alzando i dazi su tutte le importazioni. Come dovrebbe comportarsi l’Ue? C’è lo scenario peggiore: una risposta colpo-su-colpo. Per le imprese americane i mercati europei sarebbero meno aperti e viceversa, i consumatori dovrebbero pagare di più i beni che desiderano, per i quali spesso è difficile immaginare un sostituto nazionale. E gli effetti sarebbero a catena, perché, appunto, verrebbero tassate di più cose che servono a fare altre cose. L’acquirente di un prodotto è ignaro della loro esistenza, ma senza di esse quel prodotto non c’è. Ma c’è anche un altro scenario. Usa e Ue possono provare a negoziare degli accordi. Trump si racconta come il deal maker per eccellenza. L’opinione pubblica europea sembra temere che il nuovo presidente possa spuntare un accordo oneroso per l’Ue. Questo è un errore di prospettiva. In realtà, più l’accordo è favorevole a Trump, o per meglio dire agli Usa, e meglio è per tutti. Perché?
Come ha ricordato Giulio Tremonti nella sua intervista al Corriere lo scorso 10 novembre, non è che la situazione attuale sia quella di un’unione doganale fra Stati Uniti ed Europa. L’Unione europea ha un’lva sulle importazioni dai Paesi extra Ue. L’Iva sulle importazioni è sostanzialmente un dazio. L’Ue è un’unione doganale, che ha i suoi confini, le sue dogane e tassa i prodotti che le attraversano. Solo pochi mesi fa discutevamo della proposta (demenziale) di abolire la soglia dei 150 euro sotto i quali non si paga dazio sui prodotti importati. Una misura che l’Ue di von der Leyen, non gli Usa di Trump, stavano studiando (e speriamo si fermino lì, allo studio) per colpire la concorrenza a basso costo delle piattaforme cinesi come Temu e Shein.
Quando ci capita di comprare beni per un valore superiore a quella soglia, al singolo consumatore tocca pagare il dazio affinché vengano sdoganati e gli siano recapitati. Che è poi la ragione per cui tutti noi, quando acquistiamo un tablet negli Stati Uniti dove notoriamente costano di meno, lo infiliamo in valigia e dichiariamo di non avere nulla da dichiarare al rientro in Italia. I prodotti Apple, per fare il caso più noto, costano di più in Europa che altrove. In parte perché le aziende fanno discriminazione di prezzo, sapendo che i consumatori ricchi (come gli europei, per quanto non se ne accorgano, sono) hanno più disponibilità a pagare di quelli poveri. Ma in parte anche grazie al fisco.
Lo stesso vale per tutta una serie di beni rispetto ai quali il consumatore non conosce o rispetto ai quali non sospetta nemmeno l’esistenza di un dazio. Dagli abiti ai prodotti caseari, l’Unione europea ha un complesso sistema di dazi, più lievi in caso vi siano specifici accordi con alcuni Paesi, talora fortemente penalizzanti. A ciò si sommano tutta una serie di barriere non-tariffarie, per cui manufatti realizzati con talune modalità produttive non possono (a causa di requisiti di sicurezza o ragioni le più varie) essere importati.
Il sistema che abbiamo è l’effetto in buona parte dell’attività di pressione da parte di alcuni produttori, che vogliono evitare la concorrenza internazionale ed essere pagati di più. L’effetto è che noi tutti spendiamo di più di quanto potremmo, per tutta una serie di prodotti. Risorse che potrebbero essere tranquillamente impiegate per altri scopi, in assenza dei dazi che ci sono già. Attenzione quindi al dibattito dei prossimi mesi. Quelle che verranno chiamate «concessioni» agli americani, e che buona parte del circolo lobbistico di Bruxelles biasimerà con tutto se stesso, sono in realtà liberalizzazioni il cui esito sarebbero prezzi più bassi per gli europei.
Se Trump minaccia la guerra commerciale, l’Unione europea fa bene a trattare e più concede agli americani in termini di inferiori barriere, più crescerà il tenore di vita dei suoi cittadini.