4 Giugno 2024
Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Teoria e scienze sociali
«Qualsiasi altra cosa la storia dirà di me, spero registrerà che ho fatto appello alle vostre migliori speranze e non alle vostre peggiori paure». Ronald Reagan è morto il 5 giugno 2004. Vent’anni nel corso dei quali la speranza in politica ha ceduto il posto alla paura.
Appellarsi a quest’ultima, del resto, è tanto più facile. La paura del diverso, del nuovo, l’eterna paura della fine del mondo. Reagan invece spalancava le finestre su mondi nuovi. Lo chiamavano l’attore, ricordando il suo antico mestiere, ma per trent’anni era stato prima impeccabile divulgatore, per la General Electric, e poi governatore della California. Scriveva non solo lettere alla moglie Nancy, ma anche, su grandi block notes gialli, i propri interventi radiofonici.
«Signor Gorbaciov, butti giù questo muro» è una frase sua. Cresciuto in una famiglia difficile, aveva addosso lo spirito della frontiera. La speranza galoppa quando intravede l’orizzonte. Il volto, la voce, le parole fecero di Reagan un’icona. Ma per quell’icona c’è poco spazio. Oggi è tempo di muri che si rialzano, di speranze esangui e tutte giocate sulla possibilità di trovare «protezione». La politica, conservatrice e no, si è fatta cupa. Forse proprio per questo non c’è un leader che abbia non solo le idee, ma nemmeno il sorriso di Reagan. Nell’84, quando veniva attaccato perché troppo vecchio, disse che non avrebbe sfruttato «la giovane età e l’inesperienza del mio avversario per ragioni politiche».
Lettore più attento e uomo più colto di quanto non gli riconoscessero, non aveva il mito dello stakanovista. «Dicono che il lavoro non ha mai ucciso nessuno, ma perché rischiare?». I politici vogliono sempre fare, decidere, rottamare, costruire, realizzare. Reagan passava i suoi fine settimana andando a cavallo non perché si fidava dei suoi collaboratori, ma perché confidava negli americani. Il governo che governa meglio è il governo pigro.