Un occhio attentissimo al Sud, un altro all’Europa e massima concentrazione sui conti pubblici. Sono le “raccomandazioni” che il professor Nicola Rossi fa al governo in pectore. Nicola Rossi è uno degli economisti più raffinati nel pensiero e nei modi d’Europa: già presidente dell’Istituto Bruno Leoni il think tank culla del pensiero liberale, di cui è componente del consiglio di amministrazione, è stato per molti anni vicino alla sinistra, ma in una posizione sempre da libero pensatore. E’ di Andria ora insegna Economia Politica all’Università di Roma Tor Vergata e da sempre sostiene una sua Disfida di Barletta contro lo statalismo in economia.
La crisi energetica è l’emergenza del momento. Il rischio la desertificazione produttiva. Oltre a una possibile rivolta sociale. Esiste un rimedio che il governo può mettere in campo?
«Non mi sembra che si possa pensare di andare avanti all’infinito risarcendo famiglie ed imprese. E, d’altro canto, l’impatto di interventi strutturali (pensiamo alla accelerazione delle rinnovabili), che pure vanno perseguiti con urgenza, non si avvertirà nel breve periodo. Rimane allora la possibilità di intervenire sui meccanismi di determinazione dei prezzi dell’energia. E’ una strada che l’Italia ha battuto da tempo in Europa e che io penso che finirà per prevalere. In ritardo, forse, ma per prevalere».
L’Europa sembra divisa più che mai. Quale atteggiamento si deve tenere in Europa considerando che si riparlerà prima o poi di patto di stabilità?
«La divisione dell’Europa – penso al recente comportamento della Germania – è conseguenza delle regole che non ci sono o che si sono sospese negli ultimi anni. Non so se la Germania si sarebbe potuta permettere l’intervento recente se le regole sugli aiuti di Stato non fossero state sospese. Il che dovrebbe convincerci di una cosa: prima o poi arriva sempre il momento in cui scopriamo che le regole tornano utili. A tutti. Anche a noi».
E che dire delle politiche monetarie restrittive della Bce?
«Abbiamo vissuto per circa un quindicennio uno straordinario esperimento di politica monetaria che ci ha permesso di attenuare le conseguenze di crisi di prima grandezza ma che è, a mio modo di vedere, durato molto oltre quel che sarebbe stato utile e necessario. E ora quell’esperimento ci sta presentando il conto. Ed è un conto molto salato. Facciamocene una ragione: quelle odierne non sono scelte restrittive di politica monetaria. I tassi di interesse reali sono largamente negativi anche in prospettiva. Quel che vediamo oggi è il doloroso e faticoso ritorno alla normalità».
Da anni sembra che le politiche industriali siano state abbandonate. Basta da solo il Pnrr per ridare slancio al Paese? È giusto pensare di modificarlo e ricontrattarlo?
«La nostra memoria è corta. Le politiche industriali sono state abbandonate perché non hanno funzionato. E non penserei al Pnrr come ad un esempio di politica industriale. Si faranno e sarà la parte che con ogni probabilità funzionerà, investimenti infrastrutturali di cui avevamo comunque bisogno e in direzioni ragionevolmente generali. E si faranno, invece, e sarà la parte che molto probabilmente non funzionerà, interventi a carattere locale, o meglio localistico, che se tutto va bene lasceranno il tempo che trovano. Io ho l’impressione che per dare un futuro al nostro sistema produttivo si debba guardare oltre il Pnrr e fare quel che ho recentemente sentito dire alla leader del principale partito italiano: lasciare in pace chi produce, investe, lavora e dà lavoro».
L’equilibrio di bilancio va perseguito ma le strade sono due: aumentare le tasse o tagliare la spesa. Si viene da anni di ideologia tassa e spendi. E’ tempo di rispolverare Von Mises? Per uscire da questa spirale cosa serve un nuovo welfare, una rivoluzione fiscale, una privatizzazione dei servizi?
«Nel breve periodo serve una equilibrata determinazione nel mantenere la disciplina di bilancio. Per garantire i nostri partner ed i nostri creditori, certo. Ma anche per segnalare una inversione di rotta rispetto alle scelte o, meglio, alle pulsioni degli ultimi decenni. Ma la equilibrata determinazione di oggi (e di domani) deve essere accompagnata da una altrettanto determinata volontà di incidere in profondità ed in un’ottica di legislatura sulla complessiva struttura del bilancio pubblico. Il che significa una profonda riforma fiscale e una altrettanto significativa riforma della spesa e dei suoi meccanismi».
La Nadef mantiene una prospettiva sia pure ridottissima di crescita, molti osservatori annunciano invece la recessione. Il pericolo ulteriore si chiama stagflazione. Ma non si vedono in campo ricette capaci di sostenere la domanda interna atteso che non si può vivere di solo export e dunque i redditi e del pari stimolare la crescita. Che fare?
«Beh, francamente mi sembra che il sostegno che il Pnrr offre ed offrirà nel prossimo biennio sia più che sufficiente. Parliamo di risorse molto ingenti che, in linea di principio, dovrebbero peraltro non essere destinate al semplice sostegno congiunturale ma mutare le prospettive di crescita di lungo periodo».
Qual è un provvedimento magari uno shock, o un provvedimento bandiera che potrebbe dare il segno di una svolta nella politica economica?
«Comprensibilmente, l’attenzione è concentrata su quelli che vengono chiamati i “ministeri-chiave”. Per gli altri si dà un po’ per scontato che possano essere assegnati con logiche politiche. E invece le battaglie fondamentali potrebbero combattersi proprio in questi luoghi apparentemente secondari. Le faccio un esempio. Perché torni a crescere il Paese è imperativo che il Mezzogiorno cresca più del Centro-nord del Paese e cominci a ridurre il divario che lo separa dal Centro-nord. Ma la realtà è che il prodotto interno lordo per abitante meridionale è oggi circa il 55% della corrispondente quantità centro-settentrionale. Era circa il 58% dieci anni fa, poco meno del 59% trenta anni fa. La conclusione è una sola: le politiche regionali hanno fallito e il loro solo concreto risultato è un Mezzogiorno ormai convinto di dover (e poter) indefinitamente vivere di assistenza. Bisogna cambiare. Ci sono campi in cui limitarsi a rassicurare significa preparare la propria sconfitta».
Da La Verità, 6 ottobre 2022