19 Novembre 2022
Corriere della Sera
Alberto Mingardi
Direttore Generale
Argomenti / Politiche pubbliche
Dopo lo strappo con Emmanuel Macron, al G-20 di Bali Giorgia Meloni è parsa abile nel rinsaldare relazioni. La preoccupazione di molti è che «sovranismo» significhi «isolamento». La premier ha doti personali e politiche che rassicurano, sulla sua capacità di intendersi con chi è diverso da lei. Non si tratta solo di una questione di «governance». C’è in ballo il futuro della globalizzazione, che ha strettamente a che fare con l’«interesse nazionale» italiano.
Dal 2010 al 2018, le esportazioni sono state l’unica componente positiva del nostro prodotto interno lordo. Se le altre voci che compongono il Pil vivevano una decrescita poco felice, un segmento dell’economia italiana, le imprese esportatrici, cresceva per tutti. Per quanto non siano mai mancate iniziative per «accompagnare» le imprese italiane all’estero, quel risultato è difficilmente ascrivibile a un qualche disegno politico. In Italia, ci sono persone, lavoratori e imprenditori che fanno «cose» che il resto del mondo apprezza e desidera.
Le aziende sono un pezzo del puzzle di una «italianità» positiva che la premier è impegnata a comporre. Ma i nomi (come la nuova denominazione dell’ex ministero dell’Industria) e le dichiarazioni d’intenti sono solo un primo passo. Spingere sulla retorica dell’interesse nazionale non necessariamente è utile alle imprese, nemmeno a quelle che esportano. Le aziende che hanno tenuto a galla il nostro Pil negli ultimi anni sono parte di un’economia globale che consente loro di scegliere fornitori e partner in tutto il mondo, esattamente come in tutto il mondo trovano consumatori. Ha poco senso parlare di «filiere italiane». I nostri prodotti non sono «italiani» nel senso che vengono integralmente realizzati all’interno dei nostri confini. Persino l’agroalimentare, dalla pasta a salumi e formaggi, esporta prodotti che utilizzano semi-lavorati prodotti altrove e «trasformati» in Italia.
Del resto, se si guarda il codice postale delle sue componenti, oggi un’automobile tedesca è in buona parte italiana. Lo scambio internazionale non riguarda più soltanto i beni che arrivano sugli scaffali dei negozi. Per il 70 per cento è fatto di «cose che servono a fare altre cose»: componenti, macchinari, strumenti. Chi non partecipa alla produzione di un certo bene o servizio non sa neppure che tutto ciò esista, solo che è di lì che viene la qualità di una merce. Così come, nel nostro caso, dal «genius loci» italiano, che non ha a che fare con la provenienza delle materie prime ma con il modo in cui vengono trasformate, con la sapienza industriale o il gusto artigiano che sappiamo aggiungervi. Qualche anno fa, in un Paese latinoamericano, incassai compiaciuto un «grazie per gli ingegneri italiani» da parte di un micro-imprenditore del cioccolato. Le macchine che usava per produrre i suoi cioccolatini erano «Made in Italy». Chissà da quanti Paesi venivano i loro componenti e relativi brevetti.
Le filiere di fornitura oggi sono multinazionali e hanno retto alla prova della pandemia precisamente perché non dipendono da un qualche disegno ministeriale, ma dalle decisioni di produzione di milioni di imprese che collaborano per una semplice ragione: perché conviene a loro. E che oggigiorno sono alla ricerca di nuovi partner e di nuovi mercati.
Tutti i governi, non solo quello guidato da Giorgia Meloni, dichiarano di fare l’interesse nazionale. Il guaio è che è facile confonderlo con specifici interessi particolari. Magari con quelli più bravi a interloquire con il potere politico. Il successo dell’export italiano non dipende dalla regia di un ministero. Invece sono molte le imprese che chiedono «protezione» proprio perché faticano a competere sui mercati internazionali. C’è chi vorrebbe si desse priorità, per esempio, a fornitori nazionali, avendo in mente se stesso. Il problema non sta solo nelle prevedibili contromosse degli altri Paesi eventualmente penalizzati.
Il protezionismo si fa in due: mettere i bastoni fra le ruote alle imprese di un altro Paese suscita un intervento simile da parte di quest’ultimo. Il problema è che più si vincolano le imprese a scegliere fattori produttivi per ragioni che sono diverse dalle convenienze economiche, più si introducono rigidità e distorsioni nel sistema; in ultima analisi se ne aumentano i costi di produzione e se ne riduce la capacità di competere. Le debolezze di buona parte dell’economia italiana vengono proprio di lì: da regole o prassi che impediscono o scoraggiano quelle che sarebbero le scelte «economiche» in senso proprio. Non disturbare chi ha voglia di fare significa lasciarlo libero di decidere chi vuole assumere, quali tecnologie desidera impiegare, dove vuole comprare materie prime o componenti.
Per mettere a fuoco l’interesse nazionale più autentico, forse è meglio pensare che coincida con quello dei consumatori, a cominciare da quelli a basso reddito, che da un’economia più efficiente possono ottenere servizi più a buon mercato. E con quello dei giovani: non chi già lavora ma chi dovrà entrare nel mercato del lavoro nei prossimi anni, e merita di trovare un’economia più dinamica e quindi ricca di occasioni per mettersi alla prova.
dal Corriere della Sera, 19 novembre 2022