Una realtà a lungo camuffata, spiegata in un libro di Carlos Rangel
E’ difficile disincrostare una realtà ricoperta da radicati luoghi comuni. Sì, perché quando si parla di America Latina, l’opinione ricorrente è quella di un continente che ha un sapore diverso e un’aura speciale: quella di un luogo in cui il mito del buon selvaggio di rousseauiana memoria incontra e si fonde con il mito del buon rivoluzionario. Di esempi, nel corso del Novecento, ce ne sono a iosa: Peron, Castro, Chavez e così via. Tutti acerrimi nemici dell’Occidente, di Mammona, del mondo borghese in sostanza.
IL BUON SELVAGGIO
L’America Latina è stata dunque una sorta di paradiso in terra realizzato, secondo taluni. Un mondo purificato dall’idolatria della ricchezza e dai costumi civilizzati che deviano l’uomo buono. Eppure, la storia del continente è la storia di un sostanziale fallimento. A scriverlo è un venezuelano, Carlos Rangel (1929-1988), in un testo del 1976, tradotto in italiano nel 1980 e ora riproposto nella collana “liberalismi eccentrici” dell’Istituto Bruno Leoni: Dal buon selvaggio al buon rivoluzionario. Miti e realtà dell’America Latina. Importante giornalista e diplomatico di estrazione liberale, Rangel si è formato culturalmente negli Stati Uniti, dove ha anche insegnato.
Gli stessi abitanti del continente, pur nella diversità, si muovono su un crinale ambivalente, scrive l’autore. Da un lato, essi sono profondamente insoddisfatti di ciò che sono; per un altro verso, riconoscono la loro storia come un pellegrinaggio alla ricerca di un mondo migliore e più felice.
LE RADICI
Del resto, la costruzione del mito latino-americano affonda le radici indietro nel tempo, almeno fino ai primi conquistadores che pensavano di trovare nel nuovo continente un paradiso perduto. Un paradiso perché privo di quei comportamenti peccaminosi – su tutti, l’adorazione della ricchezza che ha dimostrato di coltivare il mondo civilizzato. Ecco che il buon selvaggio si salda con il buon rivoluzionario: quest’ultimo ha la missione di redimere l’esistente da ciò che non va, ovvero da tutto quello che devia dall’instaurazione di un mondo purificato.
Una mentalità tipicamente gnostico-millenaristica che è propria del marxismo e di tutte le dottrine totalitarie (sull’argomento La società dei giusti, Rubbettino, del compianto Luciano Pellicani rimane fondamentale). Come scrive nell’introduzione Loris Zanatta, il libro di Rangel, pur datato, porta con dignità le sue rughe. La sua interpretazione, dopo tutto, si basa su una costante empiricamente fondata: l’America Latina, di tradizione ispanica, si trova perennemente in crisi; l’America del Nord, di ispirazione illuministico-liberale, certamente no.
I PARAMETRI
Come mai, si chiede Rangel? Il sottosviluppo economico può spiegarsi solo attraverso parametri extra-economici, ovvero politico-istituzionali e di principio. Come del resto ha sostenuto il sociologo francese Jean Baechler ne Le origini del capitalismo (1971), non si può spiegare la prosperità economica con fattori economici: in Europa, il capitalismo, o meglio il sistema di mercato e, dunque, il benessere largamente diffuso è stato possibile grazie alla non concentrazione del potere politico. Tutto questo in virtù del propagarsi di certe idee e comportamenti, quali la fiducia nell’individualismo e nella creatività dell’uomo, che sono alla base di economie prospere.
In America Latina, invece, si è preferito camuffare la realtà: il paradiso in terra è realizzabile grazie al potere politico e al potere dell’immaginazione. La realtà, però, non si presta a essere turlupinata.