Vilfredo Pareto: l'ignoranza e il malgoverno

Nell'introduzione delle “Lettere a Liberty” Alberto Mingardi ricostruisce il percorso che ha portato Pareto alla maturazione di un pensiero liberale

2 Ottobre 2018

L’indice dei Libri del mese

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Pareto aveva appena compiuto 40 anni quando, nel luglio 1888, iniziò la sua breve ma non casuale collaborazione con la rivista “Liberty”, la voce forse principale, all’epoca, dell’anarchismo statunitense. Ingegnere, con solidi studi alle spalle, Pareto era dal 1880 il direttore generale della Società delle ferriere italiane di San Giovanni Valdarno. Era stato nel comune toscano consigliere dal 1876 al 1882; e si era persino candidato, sebbene senza successo, alla Camera dei deputati. Aveva dunque alle spalle qualche esperienza diretta della politica. La sua carriera scientifica e accademica invece era ancora di là da venire: solo nel 1890 avrebbe conosciuto Maffeo Pantaleoni e soltanto quattro anni dopo, grazie all’intervento decisivo dell’autorevole amico, sarebbe stato nominato ordinario di economia politica all’Università di Losanna, divenendo cosi l’erede su quella cattedra del grande Léon Walras.

Cosa abbia spinto il quarantenne ingegner Pareto a occuparsi della rivista americana, cosa egli vi abbia trovato di congeniale alla sua personale elaborazione economica e sociologica tanto da collaborarvi attivamente costituisce l’interrogativo principale di un denso studio di Alberto Mingardi, introduttivo (ma si tratta di un’introduzione corposa, quasi 90 pagine fitte di note) alla pubblicazione integrale per sua cura delle inedite sei Lettere a “Liberty»: tre pubblicate nel 1888 (agosto, ottobre e dicembre), una o forse due nel 1889 (l’una certamente nell’agosto di quell’anno, l’altra senza indicazione di data), una – l’ultima – nel dicembre 1891.

Mingardi fa precedere le lettere da una puntuale ricostruzione del contesto culturale dell’anarchismo americano di fine Ottocento, collocandovi “Liberty” e illuminando la personalità davvero originale del suo ideatore e principale artefice, Benjamin R. Tucker (1854-1939).

Siamo nella Boston di fine secolo, nella quale si avvertono i primi segnali di crisi economica (lo spostamento verso il sud dell’industria locale alla ricerca di mano d’opera a più buon prezzo ad esempio), ma anche si manifestano gli effetti dinamici dell’immigrazione, prima quella irlandese (e cattolica), poi anche quelle italiana e portoghese. Un teatro insomma non statico, nel quale matura (lo scoprirà e lo farà scoprire agli europei Sophie Raffalovich con un bell’articolo pubblicato proprio nel marzo 1888 sul “Journall del Economistes”: se ne può leggere il testo nell’appendice del volume curato da Mingardi) la corrente degli “anarchici senza bombe”, dalla quale appunto nasce la rivista di Tucker.

Nel “Journal” Pareto aveva pubblicato l’anno prima un suo articolo contro la tariffa doganale italiana: ecco dunque il tramite, segnale evidente di una circolazione di idee tra le due sponde dell’Atlantico (i reticoli culturali tipici di quella fine secolo). Gli “anarchici senza bombe”, come essi stessi si definivano, erano radicalmente contrari – salvo qualche cedimento episodico, ma più che altro verbale – alla “politica della dinamite”, la strategia degli attentati che in quegli anni avrebbe insanguinato mezza Europa, molto allarmando gli apparati di polizia dei principali stati (in Italia la ristrutturazione dell’apparato poliziesco crispino ne fu un effetto diretto). Tucker, “attivista e letterato” costituì, in quel contesto politico e culturale, un importante punto di riferimento. Era proudhoniano (anche traduttore di Proudhon in inglese), individualista, già a vent’anni anarchico convinto. Fondò “Liberty” nel 1881 e la pubblicò puntualmente, curandola come la sua creatura prediletta per 27 anni, pur dedicandosi nel frattempo anche ad altre originali intraprese politiche e letterarie. Mingardi ne segue la biografia passo dopo passo, sino alla morte, illustrandone i molteplici interessi, le revisioni e le svolte ideologiche, nonché documentandone le curiosità insaziabili e le frequenti irrequietezze intellettuali. Tra le quali si annovera la sua grande passione, certamente molto presente nelle pagine di “Liberty”, per Herbert Spencer.

Forse fu proprio la consuetudine col pensiero del filosofo britannico il trait-d’union tra Pareto e “Liberty”. Forse, perché, nel suggerire questa ipotesi, Mingardi ammette onestamente che le radici dell’ “incontro fatale” sono ignote, né si possono reperire fonti dirette che ce le rivelino.
Di Pareto, Mingardi ricostruisce esemplarmente nell’introduzione l’evoluzione intellettuale, sino ad arrivare con gli anni ottanta e il periodo fiorentino a quella che definisce come la sua “militanza liberista”: della quale Mingardi traccia origini e sviluppo, ricomponendo il mosaico delle letture, delle frequentazioni, delle riflessioni teoriche paretiane.

Delle Lettere, anche prima di questa opportuna edizione, già si sapeva, ovviamente. Ne aveva fatto cenno Fiorenzo Mornati, individuandovi anzi le “prime riflessioni di scienza politica” di Pareto (di Mornati Mingardi annuncia un’imminente nuova biografia paretiana); vi aveva fatto riferimento con acume Gianfranco Miglio. Pareto stesso, in altre fonti coeve, si dimostra consapevole della rilevanza di questi suoi brevi testi nell’evoluzione del suo successivo pensiero. In tutti i casi, scritte in francese e poi tradotte in inglese oltre Atlantico, le Lettere – ci dice Mingardi – “compongono un quadro dissacrante della classe politica contemporanea, che anticipa i contorni del realismo politico paretiano”.

Vi dominano alcuni temi centrali: la denuncia dell’ escalation non solo italiana del protezionismo doganale; i limiti strutturali della politica in Italia; la rilevanza negativa della questione meridionale, cui si collega l’osservazione molto penetrante del divario di consapevolezza politica tra lavoratori del Nord e del Sud; il difetto di “educazione politica” delle masse ma anche dell’opinione borghese; l’assenza di una reale distinzione in “partiti”, sicché alla fine la dasse politica si confonde in un unico compromissorio blocco di potere dominato dal trasformismo.
Il quadro che Pareto traccia dell’Italia di fine secolo (alla vigilia di quella che sarà di li a poco la prima rivoluzione industriale) suona come un’accorata denuncia: debolezza dello stato, assenza di una classe dirigente autenticamente liberale e di una divisione in essa secondo idee e programmi (“la borghesia è al potere e ne abusa”), corruzione e malgoverno (“la magistratura è sostanzialmente dipendente dal potere esecutivo”; “i funzionari governativi non possono essere perseguiti, quando violano la legge”). Un quadro fortemente negativo, insomma, nel quale emerge con evidenza il protezionismo come la vera radice primigenia del “malgoverno”.

Ma non è solo quello della denunzia, l’intento che muove l’autore.

Ce ne è un altro, che Mingardi opportunamente mette in luce, ed è quello comparativo, correlato a sua volta con quello educativo: “l’esperienza di un popolo – scrive Pareto nella prima delle Lettere, quasi a mo’ di programma – può sempre essere di una qualche utilità ad un altro, se questo comprende come trarne profitto”. E subito dopo: “può essere interessante per gli americani che si richiami la loro attenzione su alcuni fatti sociali dell’Europa; troveranno assai poco, e forse nulla, che valga la pena di imitare, ma potranno osservare i mali che sono stati prodotti in Europa da alcune tendenze perniciose, che sin qui l’America è stata tanto saggia da evitare, almeno in parte”.

Da L’indice dei Libri del mese, 2 ottobre 2018

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