Il volume raccoglie sei lettere, per la prima volta tradotte in italiano, scritte nel triennio 1888-1891 da Vilfredo Pareto alla rivista bostoniana “Liberty”. Le lettere presentano l’Italia crispina al pubblico americano.
Pareto (1848-1923) può essere considerato il più importante economista e sociologo italiano nel periodo che va dalla fondazione dello Stato nazionale all’avvento del fascismo.
Nacque a Parigi da padre italiano – un nobile genovese esule, perseguitato per le sue idee mazziniane – e da madre francese. Nel 1852 la famiglia rientrò in Italia, dove il padre lavorò come insegnante prima a Genova e poi a Casale Monferrato.
Pareto nel 1870 si laureò in ingegneria civile al politecnico di Torino. Trovò subito impiego a Firenze presso la Società strade ferrate come ingegnere del servizio materiale e trazione. Nel 1873 passò alla Società per l’industria del ferro di San Giovanni Valdarno, di cui diventò direttore generale nel 1880.
Dal 1872 in poi si impegnò in un’attività pubblicistica molto intensa, con articoli e interventi vari, tutti aventi come scopo principale la difesa della libertà di commercio e delle unioni doganali e il rigetto dell’intervento dello stato nell’economia. Riservò energie particolari alle battaglie contro il protezionismo, i dazi e le sovvenzioni statali. In quegli anni fu un sostenitore del sistema politico britannico e un fautore della società aperta e della democrazia (in particolare del suffragio universale con sistema elettorale proporzionale). Fu anche un difensore del diritto di sciopero delle organizzazioni operaie, su posizioni non diverse da quelle che aveva assunto John Stuart Mill.
Il periodo in cui fu dirigente d’azienda coincise anche con le due uniche esperienze politiche della sua vita. Dal 1876 al 1882 fu consigliere comunale a San Giovanni Valdarno. Fu candidato alla Camera dei deputati nel 1882 nel collegio di Pistoia-Prato-San Marcello, scontò una propaganda dominata da polemiche personali indirizzate principalmente contro di lui e perse l’ elezione.
Un suo biografo, Giovanni Busino, ha indicato la psicologia del politico mancato e frustrato quale elemento cruciale per comprendere il prosieguo dell’opera paretiana: furono proprio le esperienze personali a convincere Pareto che il potere è malvagio e corruttore e che nella politica contano solo i tornaconti personali e le falsità di coloro che sfruttano le passioni popolari per la ricerca del potere. Nell’introduzione al libro, il direttore dell’IBL Alberto Mingardi commenta l’evoluzione delle posizioni di Pareto e osserva:
“uno dei padri della scienza politica moderna si convinse che interessarsi della cosa pubblica è un po’ come andare allo zoo: guai a infilarsi nella gabbia delle scimmie, meglio osservarle da fuori”.
Nel 1891 Pareto abbandonò la carriera di dirigente d’azienda e si dedicò all’economia pura, disciplina cui consacrò tutte le sue forze. Grazie alla presentazione di Maffeo Pantaleoni, nel 1893 iniziò a insegnare economia politica e, più tardi, sociologia e scienza politica, all’università di Losanna. Nel 1894 fu nominato professore ordinario.
Nelle lettere presentate in questo volume si possono trovare alcune delle prime riflessioni di scienza politica di Pareto e il riferimento a concetti che non erano certo comuni in quegli anni, come “classe dirigente” e “classe che regge il potere”. Il suo pensiero troverà una più completa formulazione in opere successive, in particolare nella lunga introduzione ai Sistemi socialisti del 1902 e nel Trattato di sociologia generale del 1916, opere nelle quali enunciò la teoria delle élites. Secondo Pareto in ogni società non può esserci che una separazione-opposizione fondamentale, quella tra masse ed élites. L’élite governa ricorrendo alla forza e all’astuzia, ed è sempre spodestata da un’altra élite, che magari parla in nome del proletariato o degli sfruttati. La storia è dunque una storia d’élites che si avvicendano ai posti di comando; la storia è un “cimitero di aristocrazie”; è la storia d’una successione di minoranze privilegiate che si formano, lottano, arrivano al potere, profittano di questo potere, cadono in decadenza, sono sostituite con la forza o con mezzi pacifici da altre minoranze. La teoria delle élites fa di Pareto un autore difficile e scomodo; per lui democrazia, socialismo, liberalismo, stato di diritto, giustizia, sono pure astrazioni. E così anche tutte le dottrine rivoluzionarie. I rivoluzionari promettono di cambiare tutto, di eliminare l’ingiustizia e l’oppressione. Appena poi hanno conquistato il potere, creano una società che non ha nulla a che vedere con quella promessa prima della rivoluzione. Si può quindi affermare che il liberalismo e il socialismo mirino al medesimo risultato: permettere a delle minoranze, le élites, di conquistare e conservare il potere. Tali constatazioni rendono Pareto ancora più scettico e pessimista sul progresso, sul senso della storia, sul ruolo della ragione nel funzionamento della società.
Le sei lettere a “Liberty” disegnano un quadro dissacrante della classe politica del suo tempo, che “anticipa – scrive Mingardi – i contorni del realismo politico paretiano”. Lo stile è urticante, l’Italia crispina è presentata come un regime statalista, protezionista, militarista e corruttore.
La prima lettera è quella di impianto teorico più vasto. L’Italia è collocata sullo sfondo di una tendenza storica generale, il “ritorno di fiamma dello spirito protezionistico”. I guasti prodotti dalla svolta protezionista, in particolare dalla “sconsiderata” guerra doganale con la Francia, sono un tema molto caro a Pareto, che rileva come l’aumento delle tariffe doganali si accompagni all’interventismo in politica estera e all’incremento della spesa per armamenti. Egli spiega ai suoi lettori d’oltre Atlantico che nella “spedizione italiana a Massaua” il popolo italiano ha “speso già più di un centinaio di milioni per mettere piede in un angolo della terra così inospitale, dove l’acqua potabile è completamente assente” e “prevale un clima che è fatale all’europeo”.
La seconda è dedicata al tema delle relazioni di classe. Pareto vuole dimostrare che “l’attuale condizione dell’Italia, e in larga misura anche della Francia, può essere spiegata dicendo che essa è il risultato dell’applicazione, a vantaggio della borghesia, dei principi e dei processi che sono comunemente chiamati socialismo quando essi sono istituiti a favore del popolo”. L’Italia è un regime di “socialismo borghese”, in cui le politiche di controllo e direzione dell’economia sono messe al servizio della classe dominante. I partiti politici mostrano tra loro differenze marginali, poiché la classe eletta di governo è tenuta assieme dalla gelosia con la quale conserva il potere.
La terza ha come argomento il Meridione, la cui arretratezza Pareto riconduce esplicitamente a condizioni politiche. C’è un dominio di casta che non è stato scalfito dalla conquista sabauda, una situazione assai grave:
“i nostri uomini di Stato hanno una pesante responsabilità nel non avervi prestato attenzione; arriverà forse un giorno nel quale la borghesia pagherà molto caro la sua indifferenza e crudeltà verso i poveri”.
La quarta lettera sottolinea la differenza di consapevolezza civile fra i lavoratori del Nord Italia e quelli del Sud, che si riflette nella diversa qualità della rappresentanza. Nel Sud “le elezioni non sono quasi mai una questione di idee ma, al contrario, una faccenda di persone”. Gli elettori votano indifferentemente per un candidato della Destra o per uno della Sinistra e “non prestano nessuna attenzione a ciò che pensa”.
La quinta torna sul tema della necessità di una “educazione politica” di cui gli italiani hanno bisogno per non cadere vittima dei raggiri dei maghi del consenso. Attorno a Crispi e in generale attorno al potere di governo ci sono personaggi che scambiano influenza con favori : la “borghesia funzionariale”. Questo vincolo di convenienza non implica adesione ideologica, o entusiasmo per questo o quel leader, ma ciò non significa che esso non sia saldo: lo rafforza l’ignoranza del popolo, che non è né informato né consapevole. E ben poco cambierebbe abbandonando la forma monarchica di governo: “anche se l’Italia diventasse nottetempo una repubblica, molto probabilmente avrebbe lo stesso governo che ha ora e nulla interferirebbe col fatto che il signor Crispi diverrebbe presidente della repubblica, così come ora è a capo di un governo regio”.
La sesta e ultima lettera riafferma la medesima idea dell’equivalenza fra partiti che si distinguono sotto il piano retorico, ma sono in realtà uniti dall’appartenenza allo stesso gruppo di potere. Crispi è rappresentato nelle lettere come la personificazione dei difetti nazionali.
Il politico siciliano è l’emblema di tutto ciò che Pareto contrasta: statalista in politica economica, militarista in politica estera, pronto a distribuire prebende e a interferire con una corretta allocazione del credito. L’Italia crispina è un laboratorio nel quale Pareto verifica i danni economici del protezionismo, i guasti civili che esso provoca e l’impossibilità che sia il sistema politico a riparare gli uni e gli altri.
Anche negli scritti successivi di Pareto è frequente il richiamo alla necessità di un governo frugale, a un’Italia che “eviti passi più lunghi della gamba”, che non giochi alla politica di potenza. Politiche siffatte esauriscono risorse e indeboliscono proprio i ceti popolari.
Il suo giudizio sulla borghesia italiana è molto duro. La “massa dei borghesi” è indifferente a qualsiasi ragionamento sulla libertà: “fintanto che il numero di posti pubblici messi annualmente a disposizione dei loro figli non diminuisce, fintanto che possono continuare ad arricchirsi grazie al protezionismo, (…) tutto il resto continua a sembrar loro quisquilie roba buona per le considerazioni dei teorici, ma indegna dell’attenzione degli uomini pratici che pensano agli affari propri”.
I benefici che giungono a particolari gruppi sociali dalle politiche protezioniste si traducono nel loro sostegno all’intero ceto politico. Il regime di socialismo borghese che si osserva in Italia spegne le critiche di coloro che potenzialmente dovrebbero opporsi alle iniziative liberticide dei governi. L’ interventismo “perverte e guasta ogni ordinamento sociale: commercio, industria, banche, ferrovie, tutto contamina”.
Una volta abbandonato l’insegnamento nel 1911, Pareto intensificò l’attività pubblicistica, volta prevalentemente a illustrare la validità scientifica delle sue tesi, trovando conferme sperimentali nei grandi eventi politici del tempo: la guerra mondiale, la rivoluzione russa, la pace di Versailles, la nascita della Società delle Nazioni, la crisi dello Stato liberale in Europa, il sorgere del fascismo.
Fu nominato senatore del regno nel febbraio del 1923, ma rifiutò di sottoporre alla presidenza del senato i documenti richiestigli per la convalida della nomina.
In che misura Pareto abbia col tempo abbandonato le sue idee liberali è un tema intensamente dibattuto, anche per quella sua simpatia per il primo fascismo che affiorò trent’anni dopo la pubblicazione di queste lettere. Mingardi sottolinea che la questione “non smette di interrogare gli interpreti” e cita le opinioni in proposito di Norberto Bobbio, Gabriele De Rosa, Maria Caterina Federici, Bruna Ingrao. Il direttore dell’IBL ci ricorda che egli morì nell’agosto del 1923, nove mesi dopo la marcia su Roma e dieci mesi prima del delitto Matteotti e che anche nei Pochi punti di un futuro ordinamento costituzionale, “testo talora interpretato come una sorta di testamento politico ad uso del regime, rivendicherà l’importanza della libertà di stampa, invitando il nuovo regime a rispettarla”.
Da Libro aperto, ottobre 2018