13 Settembre 2022
La Provincia
Carlo Lottieri
Direttore del dipartimento di Teoria politica
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Domenica 25 settembre milioni di italiani si recheranno alle urne, chiamati a scegliere tra una delle coalizioni in campo e anche a individuare il partito e il candidato più graditi. Come già in passato, l’assommarsi di quelle volontà produrrà conseguenze rilevanti, a partire dal fatto che la guida del governo e la sua composizione dipenderanno in larga misura dall’esito della competizione politica.
Eppure, è ragionevole ritenere che il suffragio popolare pesi meno di quanto si tenda comunemente a credere. In una società democratica, infatti, nessuno può operare senza che siano soddisfatte una serie di condizioni. Senza il sostegno dell’opinione pubblica, ad esempio, è facile attendersi che il governo crolli e che la maggioranza si sfaldi. Questo aiuta a comprendere l’enorme ruolo nella vita di un Paese che hanno i media, gli intellettuali, le principali agenzie morali e gli opinion leader. Per una forza politica, essere debole su quel fronte significa trovarsi nell’impossibilità di comandare. E non a caso già un secolo fa Antonio Gramsci aveva teorizzato l’egemonia culturale quale via per il successo politico.
Oltre a ciò, nei regimi politici occidentali caratterizzati da un’alta tassazione e da una regolazione onnipresente le decisioni governative hanno sempre conseguenze cruciali per l’economia. Di conseguenza, gli interessi delle grandi aziende (pubbliche e private) pesano tantissimo e i politici di professione lo sanno bene. In effetti, c’è da chiedersi se un governo possa governare senza il sostegno dei principali attori della vita produttiva. Tenendo pure presente che, in molte circostanze, sono proprio le maggiori imprese a controllare l’informazione. A tale proposito, nel 1941 il giovane Orson Welles ha realizzato un film, Citizen Kane (in italiano, Quarto potere), che continua a insegnarci tantissimo.
Per una forza politica è allora cruciale vincere le elezioni, ma non basta. Tanto più che poi abbiamo la presidenza della Repubblica, che negli ultimi vent’anni ha visto quello che era il “presidente notaio” diventare il vero dominus della politica nazionale. Così che chi vincerà dovrà venire a patti con l’ospite del Quirinale.
E poi abbiamo pure il ruolo della Bce (da cui dipende il larga misura la tenuta dei nostri conti pubblici) e quello della Commissione europea; senza dimenticare la necessità di godere del favore dei maggiori alleati a livello internazionale: su tutti, ovviamente, l’attuale amministrazione degli Stati Uniti.
Alla luce di tutto ciò è evidente che una coalizione politica che anche vincesse nelle urne, ma fosse debole su tutti questi fronti (ed è esattamente la situazione in cui potrebbe trovarsi il centro-destra) sarà costretta ad avviare trattative con i perdenti, che alla fine a questo punto non saranno neppure veramente tali. In tale quadro è facile prevedere che un termine già molto usato alcuni anni fa, “inciucio”, potrebbe tornare a dominare le cronache politiche romane. Saranno le logiche della Realpolitik a rimetterlo in circolo, ma è fuori dubbio che tutto questo finisce per far scendere un’ombra piuttosto scura sull’intero processo delle democrazie moderne.
da La Provincia, 13 settembre 2022