3 Ottobre 2017
Il Foglio
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Al direttore – Si mettano pure tante stelle europee sulle nostre bandiere. Ma facciamo attenzione a quanti vogliono far passare per stelle quelli che in realtà sono buchi neri: in cui finirebbero inghiottiti bandiere, noi e perfino l’Europa. Alcuni buchi neri sono in circolazione da tempo: uno si chiama Transfer Union. “Nicht in meinem Leben”, non succederà finché vivo, aveva detto la Merkel, e noi le auguriamo lunga vita. Non pensava all’AfD, che, se c’era, era fuori dal Bundestag; pensava alla Cdu-Csu, che allora era un blocco senza crepe. Mutualizzazione dei debiti, eurobond, fondo di garanzia dei depositi sopra i 100.000 prima che le nostre banche abbiano ridotto gli Npl e l’esposizione al rischio sovrano della Repubblica, manderebbero a pezzi il consenso che in Germania c’è ancora per l’Europa (e a casa il politico che lo proponesse). Senza contare che c’è un giudice a Karlsruhe.
Altro buco nero l’idea degli Stati Uniti d’Europa. Anche la “visione giacobina” (copyright Sergio Fabbrini) di Emmanuel Macron di un’Europa sovrana “è destinata ad alimentare i sovranismi nazionali piuttosto che a superarli”. Per eleggere metà del Parlamento europeo con liste transnazionali, come vorrebbe, possono bastare 7 anni; ma chi vi si sentirà rappresentato? Come può esserci democrazia dove non esiste un suo spazio di discorso politico? Neppure nella più ottimistica previsione, “in meinem Leben” succederà che l’elettore italiano si senta partecipe della battaglia politica tra i candidati Maximilian von Alemen della Bassa Sassonia e Mathieu Renaud dell’Alta Garonna. Benissimo mettere in comune la Difesa, il presidio dei confini, la politica estera, purché si sappia che l’Europa non sarà mai uno stato nazionale solo più grande: al contrario dev’essere un’Europa che riconosca e faccia leva sulla responsabilità degli stati, e magari delle loro regioni, nell’esigere le tasse e nel decidere come impiegarne il ricavato. Di quante Brexit, di quante Catalogne abbiamo bisogno per capirlo?
Del ministro delle Finanze europeo ancora non si è capito se è una stella o un buco nero; se è solo un modo per spostare dalla Commissione al Consiglio il controllo sui Bilanci degli Stati, oppure se dovrebbe avere autonomia impositiva. Non lascia presagire nulla di buono che dei 6 punti del discorso di Macron 3 sono nuove tasse, e che Bruno Le Maire, candidato a presiedere l’Eurogruppo, è accanito sostenitore della Web Tax. La concorrenza fiscale era una stella, ad alcuni pastori (irlandesi) ha consentito di uscire dall’arretratezza: ci vuol poco a prevedere che nella “visione giacobina” anch’essa finirà nel buco nero dell’armonizzazione fiscale. Noi pure abbiamo avuto tanto dall’Europa, da quella di Van Miert a quella del bail-in. Quanto ci avremmo messo altrimenti a liberarci dei monopoli pubblici, da dove avremmo tratto quel po’ di cultura della concorrenza che abbiamo assimilato? Quanto tempo, checché ora se ne dica, ci sarebbe andato per scoprire che cosa si nascondeva sotto la rispettabilità di certe strutture bancarie, e quanto ancor più pesante sarebbe stato il conto per il solito contribuente?
Spaccia un buco nero per una stella chi pensa al ministro delle Finanze europeo come quello che ci dovrebbe consentire di fare manovre anticicliche da ogni stormir di fronde. E qui veniamo al punto: abbiamo sperimentato i movimenti brutali che si possono verificare quando è lasciata al mercato la valutazione del merito di credito di un paese che al mercato deve ricorrere per 400 miliardi l’anno. Non saremmo qui se non ci fosse stato qualcuno che al momento buono, whatever it takes, ha offerto al mercato una garanzia contro il rischio di ridenominazione. Ma non è affatto vero che sia nell’interesse nazionale di “paesi deboli” come il nostro avere istituzioni europee propense a un’applicazione lasca delle regole: che valore avrebbe allora una attestazione da esse rilasciato sulla bontà del processo di aggiustamento in corso? I problemi italiani non sarebbero risolti neanche dalla “mutualizzazione” del vecchio debito: se il deficit continua ad andare, il debito prima o poi si riproduce; se il bilancio viene portato in pareggio, di mutualizzazione non abbiamo bisogno.
Serve invece che le istituzioni europee esercitino una spinta determinata, puntuale, costante, che induca l’Italia a realizzare gli aggiustamenti necessari. Come già avvenne con la privatizzazione delle imprese pubbliche e con le norme antitrust. Se il ministro delle Finanze europeo la esercita è benvenuto. Se viene pensato per aiutare i “paesi deboli” a non fare i necessari aggiustamenti, non vedrà mai la luce: ed è meglio così.
Da Il Foglio, 3 ottobre 2017