In diversi ambienti va di moda dire che la scienza non è democratica perché i fatti non si decidono a maggioranza. Anche durante la pandemia abbiamo ascoltato affermazioni volte a suggerirci che di fronte al virus dovevamo mettere le decisioni nelle mani degli esperti, che conoscono “come stanno le cose”, sospendendo al contrario le nostre astratte istanze di libertà. Almeno due sono i problemi. La democrazia liberale non si riduce al principio di maggioranza, ma riguarda anche regole e procedure dello Stato di diritto. Simmetricamente, la scienza stabilisce cosa sia un fatto a valle di complessi processi di controllo, dove non tutti gli scienziati possono essere d’accordo, ma se la larga maggioranza ritiene validi i risultati di un esperimento quei fatti possono diventare un presupposto per finanziare nuove ricerche, entrare nei manuali o venir usati come prove in una perizia legale.
Come ha spiegato il giornalista americano Jonathan Rauch, in un suo recente libro, esiste una “Costituzione della conoscenza” nella nostra società che “ha i suoi equivalenti di pesi e contrappesi (peer review e replica), separazione dei poteri (specializzazione), istituzioni di governo (società scientifiche e corpi professionali), voto (citazioni e conferme) e virtù civiche (sottoporre le proprie convinzioni alla verifica se si vuole essere presi sul serio). I membri della comunità che sostiene la costituzione della conoscenza non devono per forza essere d’accordo sui fatti; lo scopo di questa architettura è gestire i loro disaccordi. Ma devono essere d’accordo su alcune regole”. La scienza è data da queste regole e noi possiamo fare assegnamento su di essa proprio perché segue questi protocolli.
La mancata comprensione di questo fatto da parte dell’opinione pubblica “ufficiale” ha probabilmente concorso ad alimentare quella ufficiosa, dando l’impressione che tutto si equivalesse, al gioco di esprimere un’opinione sul virus e la pandemia.
Nel suo “Doom”, Niall Ferguson giustamente sottolinea come il rilievo storico di un evento drammatico non corrisponde semplicemente al numero di morti che ha prodotto. Perché esso lasci un’impronta nella storia, deve essere raccontato e ricordato in un certo modo. Ci sono state navi che andando a picco hanno fatto più morti che i 1.500 del Titanic, ma è l’affondamento del transatlantico, con tutto quello che si portava appresso sotto il profilo simbolico, che diventa una sorta di monito moralista e una storia da ricordare. La memoria, sia quella individuale sia quella sociale, non coincide con l’impronta, nel cervello o su un documento di un fatto o di un oggetto con cui si è interagito nel passato, ma si tratta di una ricostruzione funzionale al presente, per cui il contesto nel quale inseriamo il fatto o l’oggetto conta nel dare salienza o meno al ricordo.
La pandemia Covid-19 ha, rispetto alle precedenti di cui abbiamo traccia, due caratteristiche rilevanti, due apparenti vantaggi che possono amplificarne le conseguenze, facendone davvero quell’evento “rivoluzionario”, eversivo del nostro modo di vivere, che alcuni pensano essa sia. In primo luogo, è una pandemia la cui causa sanitaria è stata identificata prima ancora che prendesse avvio: abbiamo sequenziato il coronavirus e abbiamo cominciato a studiarlo, prima che mettesse in crisi i nostri sistemi sanitari. Eppure, le nostre società si sono dimostrate deboli proprio laddove avrebbero dovuto rivelarsi più forti.
In parte proprio per questa ragione, e in parte per il modo in cui è fatto il mondo nel quale viviamo, la pandemia è stata raccontata in presa diretta. La facilità della comunicazione e la possibilità di scambiare informazioni in tempo reale sono state un grande vantaggio, hanno nutrito la capacità di condividere dati e informazioni dei ricercatori. Ma sono anche diventate uno strumento di costruzione di una sorta di ansia globale, che ha influenzato potentemente le politiche pubbliche. Si tratta di un aspetto di quella che è stata chiamata con il termine “infodemia”. A sua volta, il termine “infodemiologia” è comunque stato coniato nel 2002, quando Gunther Eysenbach dimostrò che si poteva tracciare la diffusione rilevando quanto gli utenti cercano in rete il termine “flu” o “influenza”. Nel caso di Covid-19 i big data non hanno contribuito a capire e prevedere le dinamiche della pandemia: anzi, le previsioni si sono pressoché regolarmente rivelate eccessive. Sono proprio le previsioni “eccessi – ve” ad avere indotto alla prudenza? Ma allora dove sta il loro carattere “predittivo”?
Tutti ci siamo concentrati sulla proliferazione di fake news ( di “bufale”, come si diceva una volta), nella convinzione che fossero le informazioni non ufficiali e “spontanee” quelle più pericolose. In realtà, i danni provenienti di lì sono stati abbastanza limitati. Perché malgrado ci si sia chiesti, già in attesa dei vaccini, quale sarebbe stato l’impatto dei No vax, la risposta delle persone a una campagna vaccinale logisticamente eccellente è stata rassicurante.
Malgrado errori nella comunicazione dei presunti incidenti causati dal vaccino Oxford/Astrazeneca. E’ stato costruito un fantoccio No vax, confondendo No vax e No greenpass, da chi dovrebbe cercare di ragionare con oggettività sui fenomeni psicosociali, utile più per moralizzare e diffondere luoghi comuni su razionalità e irrazionalità, che per capire le dinamiche di un fenomeno che paradossalmente nasce con l’illuminismo e che va affrontato con strategie basate sulle scienze cognitive.
Le pandemie sono sfide sociosanitarie che, in passato, venivano di norma rimosse dalla memoria collettiva. Non se ne conoscevano le cause: che cosa avesse causato la spagnola stessa lo si poté capire solo negli anni Trenta. Come fossero fatti i virus, non lo sapevamo del resto fino all’invenzione del microscopio elettronico, nel 1931. Ciò che non possiamo spiegare non pensiamo neanche di poterlo combattere, o se ci proviamo procediamo di norma alla cieca. Le epidemie erano fatalità innanzi alle quali le società reagivano mettendo in campo elaborazioni culturali diverse, appellandosi al proprio senso religioso, sviluppando tabù sociali, trasformando quelli che erano i sintomi del contagio in elementi e comportamenti da respingere.
La più devastante, l’influenza spagnola del 1918, è chiamata la “pandemia dimenticata”, perché fino al 1968, quando scoppiò un’altra pandemia influenzale ( detta di Hong Kong) non se ne era parlato per mezzo secolo. Negli ultimi cinquant’anni la storia delle pandemie influenzali è ritenuta fonte di indicazioni sulle dinamiche epidemiologiche e cliniche dei diversi virus che circolano stagionalmente. Nessuno è in grado di prevedere l’evoluzione del Sars-Cov- 2 – è più saggio scommettere con la roulette che con la selezione naturale – né quali saranno le elaborazioni culturali, quando il virus oltre che presenza normale, quale è già, scomparirà dal radar emergenziale.
Prima della rivoluzione industriale l’aspettativa di vita era intorno ai 30- 40 anni. Nella fase iniziale dell’agricoltura, si scendeva a poco più di venti. In un contesto nel quale non ci si poteva difendere, per millenni non era di particolare aiuto registrare o tramandare la memoria degli eventi epidemici.
Senza contare che il cambio generazionale era piuttosto rapido e i patogeni “aspettavano” la presenza di una popolazione del tutto vergine sotto il profilo immunitario, per manifestarsi con nuove ondate. Sin dall’antichità l’esperienza aveva insegnato (come poi si riscoprì alla fine del Trecento) che segregando (distanziando) i malati e i sani si riduceva la diffusione della malattia. Ciò valeva però (sappiamo oggi) solo per infezioni trasmesse per via aerea e/ o contatto. Non se c’era di mezzo un vettore. Le maschere, molto usate in questi due anni, erano un ornamento folcloristico dei medici della peste nel XVI secolo per proteggersi da presunti miasmi, non da patogeni vivi, e tornarono in auge solo agli inizi del Novecento durante la peste della Manciuria e, soprattutto in nord America, come protezione dall’influenza spagnola nel 1918 – come abbiamo detto non si sapeva quale fosse l’agente della spagnola, e la fortuna delle mascherine è dovuta alla loro diffusione in ambiente chirurgico.
Un altro fatto appreso empiricamente era che le persone guarite da una malattia epidemica diventavano immuni. Così venne l’idea di indurre una forma più benigna di vaiolo per proteggere contro la forma letale. Alla fine del Settecento, l’esperienza di mungitrici e medici della campagna inglese portò alla scoperta dell’efficacia immunizzante del vaiolo delle vacche contro quello umano. Finisce qui tutto quello che si è imparato nell’era prescientifica della medicina.
Intorno al 1880, i giganti della microbiologia ottocentesca dimostravano che le malattie infettive sono causate da microrganismi con cicli di vita specifici. Si trattava di una rivoluzione conoscitiva paragonabile alla dimostrazione definitiva dell’eliocentrismo. La prima novità che cambiava i rapporti di forza tra noi e i patogeni sono stati i vaccini, dopo Louis Pasteur ma soprattutto dal secondo Dopoguerra, sempre più fabbricabili à la carte, grazie alla sinergia virtuosa, ma non pianificata, tra ricerca di base e logica dell’investimento industriale. Non si vuole sminuire l’igiene, in particolare l’acqua potabile e gli impianti fognari che hanno salvato più vite dei vaccini, ma senza microbiologia, immunologia e approccio sperimentale la sanità pubblica pesterebbe ancora acqua nel mortaio.
Di fronte al Covid-19, la medicina disponeva di mezzi mai esistiti prima, ma con buona pace di chi crede che si possano anticipare le caratteristiche di una nuova pandemia, e quindi fare della prevenzione (tutti i piani pandemici Oms-ispirati erano praticamente tarati sui virus dell’influenza!), il coronavirus si è presentato con tratti nuovi: non aveva antagonisti, era asintomatico nei giovani ma con una letalità del 20 per cento negli anziani (oggi demograficamente molto più consistenti che in passato) e ingolfava le terapie intensive, che esistono da meno di settant’anni.
L’approccio alla pandemia è stato diverso tra scienze mediche sperimentali e scienze medico-sanitarie, empiriche e/o basate su modelli. Le prime si sono applicate per imparare, attraverso gli esperimenti e cioè via invenzione di ipotesi e eliminazione selettiva di quelle sbagliate, la biologia del virus e quella della risposta immunitaria, per spiegare o controllare l’efficacia di misure non farmacologiche o di presunti trattamenti, e predisporre vaccini e piani vaccinali. D’altro canto, epidemiologi, specialisti di sanità pubblica e clinici, si sono dovuti accontentare, a fronte di pressati domande politiche di intervento, di approcci intuitivi ed empirici che, risultando poco efficaci in ultima istanza e facilmente condizionati da bias cognitivi, hanno virato paternalisticamente verso la pianificazione della vita sociale, chiedendo la prescrizione di comportamenti individuali in modi tassativi, anche sulla base di modelli predittivi spesso fantasiosi.
L’esito è stato che fino a quando non sono arrivati i vaccini, al momento l’unica innovazione scientifico- tecnologica prodotta in tempi ultrarapidi e che abbia lasciato una traccia efficace nell’esperienza della pandemia, a seconda dei paesi nei quali ci si trovava a vivere le misure cambiavano, perché si usavano modelli diversi e si davano ai politici indicazioni diverse.
La comunicazione è stata un disastro. In Italia di più che in altri paesi. Se serviva ancora la prova che il medium è il messaggio, l’abbiamo avuta dalla spettacolarizzazione della pandemia.
In assenza di una informazione istituzionale seria, si è deciso che la discussione in presa diretta di quanto stava avvenendo potesse esserne un buon surrogato. Da principio, col rito un po’ lugubre della conferenza stampa della Protezione civile. Poi, con un circo mediatico che ha trasformato alcuni esperti in commentatori di quanto stava avvenendo. Le dinamiche dei media hanno prevalso sulla serietà del momento, la logica del talk show si è imposta anche nell’emergenza.
Il risultato è che le reazioni individuali sono state lasciate prive di un metro con parvenze di oggettività sul quale misurarsi. Questa cacofonia polifonica ha sostenuto una paura capillare e diffusa, per il noto principio per cui le profezie di sventura vendono sempre bene. Ci siamo appassionati, ci siamo divisi in branchi, ci siamo scelti ciascuno il suo virologo di riferimento come ci scegliamo un partito o una squadra di calcio. In un momento pure così particolare, l’istinto di appartenere ha prevalso su ogni altra considerazione. La confusione non è venuta da fuori il circuito dei media ufficiali ma paradossalmente dal di dentro, dalle fonti di informazioni che dovevano essere più accreditate e responsabili.
Si pensi all’idea che dovrebbe essere, ai loro stessi occhi, il mantra più ragionevole degli antivaccinisti: quella per cui la scienza è un campo aperto, nel quale non si possono dire parole definitive e pertanto gli attuali programmi di vaccinazione non sono che un grande esperimento. Ovvero che la semplice esistenza di esperti o scienziati ostili rispetto ai vaccini debba essere una prova del dissenso all’interno della comunità scientifica. E’ completamente mancata la consapevolezza epistemologica di quanto più complessa e più precaria sia la presenza e l’influenza culturale della scienza, anche nelle nostre società complesse, per cui è fondamentale, come sostengono diversi studiosi di comunicazione scientifica, proteggerla dalle controversie pubbliche, cioè dal pensiero motivato.
Malgrado oggi le scienze cognitive spieghino le dinamiche psicologiche di fronte alla paura e all’incertezza – e da questo punto di vista non abbiamo imparato niente nei millenni – i media sono andati alla ricerca delle uscite più razionali, per fortuna rare, e del protagonismo competitivo di esperti rissosi e saccenti, per enfatizzarli. Chi avrebbe potuto aiutare a capire un fenomeno complesso ha dato all’opinione pubblica l’idea che la scienza medica sia simile al bar sport sotto casa. Speriamo che questo aspetto diseducativo venga dimenticato presto, come anche quella paura che sfibra il tessuto sociale e immobilizza i rapporti e le transazioni tra persone.
Da Il Foglio, 20 novembre 2021