Tanto tuonò che piovve. Dopo una lunga discussione, il Senato ha approvato con un emendamento alla legge di bilancio per il 2018 la cosiddetta webtax.
In teoria, si tratta del tentativo di colpire i profitti delle piattaforme online. In pratica, è un tentativo confuso e pasticciato di estrarre più gettito (poco: si parla di un centinaio di milioni di euro a partire dal 2019) colpendo le transazioni su internet. Cioè, per chiamare le cose col loro nome: di tassare chi compra e chi vende servizi attraverso la rete.
Col pretesto di colpire i giganti della Silicon Valley, questa nuova tassa finirà per penalizzare gli artigiani italiani che vendono i loro prodotti nel grande bazar di Internet e le imprese italiane che seguono la strada della digitalizzazione. A pagare il conto saranno dunque – primo paradosso – proprio quelle imprese che la politica spergiura di avere a cuore quando parte lancia in resta contro le grandi imprese multinazionali. E in particolare – secondo paradosso – proprio quelle attività che il governo ha voluto incentivare col piano Industria 4.0. È una specie di moto fiscale perpetuo: prima ti sussidio per comprare un servizio, e poi ti tasso mentre esegui la transazione.
Il terzo paradosso è che la riscossione è affidata agli intermediari finanziari. Fingiamo di non vedere che questa nuova incombenza ha dei costi (indovinate chi li pagherà?). Fingiamo pure che tutti gli intermediari siano uguali e che abbiano sempre i dati di cui dovrebbero essere in possesso per effettuare il prelievo del 6 per cento sulle transazioni. Ma non possiamo fingere di non vedere che – mentre ci si dice che le tech companies vanno colpite perché estraggono valore dai nostri dati – quegli stessi dati vengono obbligatoriamente regalati agli intermediari finanziari. Quindi, non siamo liberi di dare al nostro social network preferito informazioni su di noi, ma saremo obbligati a metterle in mano a chi gestisce le nostre compravendite online.
Quarto e ultimo paradosso: per come è costruita, la webtax colpisce prioritariamente le imprese non residenti (oltre a quelle residenti che non fanno utili, perché non potranno usufruire del corrispondente credito d’imposta). In italiano questo si chiama: dazio. Facciamo ancora una volta finta che non vi sia un problema di compatibilità con la direttiva europea sui servizi. Non possiamo però fingere di non vedere che, se c’è un paese che ha minore interesse ad avviare una guerra commerciale, quello è il paese che vive di export e che cerca faticosamente di convincere le proprie imprese a sbarcare su internet e digitalizzare processi produttivi e circuiti commerciali attraverso i servizi forniti dalle tech companies, per poter essere maggiormente visibili all’estero. Vi viene in mente un paese così? A noi sì, e si chiama Italia.
28 Novembre 2017