Il concetto di "zero emissioni" è diverso da "zero emissioni nette"

La confusione tra politica ambientale e politica industriale deriva anche dalla mancata comprensione di questi due concetti

27 Luglio 2022

Muoversi

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Ambiente e Energia

Dove siamo e da dove veniamo: cercherò di parlarne con tre numeri. Il primo numero è 2021: l’attuale crisi dei prezzi dell’energia non comincia il 24 febbraio. In un certo senso non comincia neanche nel 2021, nonostante l’esplosione dei prezzi del gas. La corsa dei prezzi del gas non comincia, infatti, quando diventa conclamata, ma alla fine del 2020, e questo non è sorprendente perché durante quell’anno abbiamo avuto i prezzi e la domanda a livelli minimi storici a causa del Covid. È un particolare importante per capire quello che è successo e che sta succedendo.

Il secondo numero è 75: il 2021 è stato l’anno, negli ultimi 75, con il più basso livello di scoperte di risorse di petrolio e gas. Ciò che emerge è che negli ultimi anni si sono pesantemente ridotti questi investimenti, soprattutto da parte delle compagnie occidentali. Non è quindi sorprendente che, alla luce di questi dati e a fronte di una ripresa che c’è stata ovviamente nel 2021 per effetto dell’uscita dal Covid, ci siamo trovati contemporaneamente ad avere una maggiore scarsità, e quindi prezzi più alti delle risorse energetiche, e uno spostamento ancora più forte rispetto a quello che c’era stato in precedenza nella dipendenza da soggetti esteri, in particolare come la Russia, le compagnie mediorientali e le compagnie cinesi, che sono molto attive nella ricerca di risorse minerarie in mezzo mondo.

Questo dato è, a mio avviso, quello più importante per capire la situazione attuale e anche per capire che, sebbene la guerra abbia ovviamente giocato un ruolo enorme nel creare incertezza, forse anche nell’alimentare speculazioni, essa ha radici molto più profonde e quindi di natura verosimilmente strutturale: non siamo di fronte a una fiammata che ci spinge a tener duro per superare la nottata, ma siamo all’interno di un periodo che è destinato a durare.

Dietro questo fenomeno ci sono tantissime cause: una è che veniamo da un periodo prolungato di prezzi molto bassi o relativamente bassi delle fonti fossili, cosa che ovviamente scoraggia l’investimento nella ricerca di nuove fonti; ma ci sono anche delle cause che non dipendono da fattori esogeni, ma da fattori endogeni, e qui arrivo al tema del ruolo dell’Europa e delle politiche nazionali.

Questi fattori endogeni si possono raccogliere in quattro grandi categorie: la prima categoria è quello che chiamo “wishful thinking”, cioè se vogliamo qualcosa allora succederà. Quindi se vogliamo abbattere le emissioni e se il motore elettrico ha oggi emissioni inferiori del motore endotermico, allora basta decidere che useremo tutti il motore elettrico e questo accadrà senza problemi, nei tempi desiderati e tutto andrà bene; se vogliamo decarbonizzare il nostro mix di generazione energetica allora basta installare più fonti rinnovabili, però poi scopriamo che per i procedimenti autorizzativi ci vogliono tempi biblici, e non solo in Italia ma anche in paesi dove la burocrazia funziona meglio. Ancora secondo questo “wishful thinking”, se vogliamo investimenti nelle fonti rinnovabili, allora non dobbiamo più volere investimenti nelle fonti fossili e questo produce poi la situazione in cui ci troviamo, scoprendo che della fonte fossile ancora abbiamo bisogno e però non c’è.

C’è poi una seconda categoria di ragioni endogene, la sottovalutazione dei problemi. Non ci siamo resi conto che sotto investendo nelle risorse tradizionali poi non ne avremmo avute abbastanza, eppure potevamo capirlo. E questo non vale solo per i fossili, vale in parte anche per le rinnovabili che dipendono anch’esse da fattori non pienamente controllabili. Una parte delle ragioni della crisi dei prezzi elettrici dell’ultimo trimestre del 2021 deriva dal fatto che c’è stato poco vento, cosa che può succedere, e una parte di quello che stiamo osservando oggi sui mercati dipende dal fatto che è piovuto molto poco.

Abbiamo altresì sottovalutato il fatto che riducendo l’investimento da parte delle compagnie occidentali nelle fonti fossili, senza riduzione corrispondente della domanda, inevitabilmente le nostre forniture si sarebbero spostate verso altri paesi, in particolare la Russia.

Abbiamo sottovalutato le conseguenze macroeconomiche di una transizione diciamo disordinata, e anche qua potevamo arrivarci. Aumentare vigorosamente i volumi di investimento in una serie di settori (la riconversione dei sistemi elettrici, la riconversione dell’automotive, ecc.) e far fare al mercato una cosa che di per sé non avrebbe fatto, inevitabilmente comporta degli effetti macroeconomici, tra cui possibilmente una riduzione dei consumi. Il che probabilmente va bene, perché è necessario tagliare le emissioni, ma non possiamo far finta che questo non abbia conseguenze: serietà e responsabilità vogliono che siamo consapevoli delle conseguenze di quello che stiamo facendo.

Terzo grande gruppo di cause endogene è l’incomprensione del fatto che i prezzi non hanno solo una funzione redistributiva, ma anche una funzione allocativa, cioè servono per dire che una risorsa è scarsa quindi bisogna consumarne meno e cercarne di più, oppure dire che una risorsa è abbondante e quindi se ne può utilizzare tanta e non serve cercarne di nuova.

Avere negato o ignorato questo fatto porta a dire ai petrolieri: “visto che voi petrolieri siete ricchi, prendo un po’ di soldi e li sposto dall’altra parte” per esempio con la tassa sugli extraprofitti; oppure dire ai produttori di energie rinnovabili: “visto che per effetto del sistema del prezzo marginale sulla borsa elettrica fate un sacco di soldi, bene ne prendo un po’ e li sposto dall’altra parte”. Senza rendersi conto che così facendo, cioè abbassando artificialmente il prezzo da un lato e abbassando artificialmente gli utili dall’altro, si crea una situazione in cui investire nell’aumento della risorsa è meno conveniente e consumare di meno e diventare più efficienti nell’uso dell’energia è meno remunerativo. E quindi abbiamo aggravato il problema anziché risolverlo.

Quarto e ultimo punto tra le ragioni endogene, e arrivo anche al mio ultimo numero, la confusione tra la politica ambientale e la politica industriale: il numero è zero. Ma c’è una differenza tra “zero” e “zero netto”. Se dico che devo fare zero passi vuol dire che devo stare fermo. Se dico che devo fare zero passi netti vuol dire che posso fare un passo a destra e poi uno a sinistra e ritrovarmi nella posizione iniziale. La differenza tra “zero emissioni” e “zero emissioni nette” significa guardare a un mondo in cui nel primo caso diciamo che dobbiamo completamente liberarci da tutto ciò che può produrre emissioni, quindi i fossili; nel secondo, allora diciamo che ci va bene utilizzare i fossili, e quindi mantenere tutta la tecnologia che dipende dal fossile, nella misura in cui riusciamo a ridurne l’impatto ambientale.

Aver deciso che non ci interessava tutta questa seconda parte spiega questa spinta al disinvestimento dalle fonti fossili, a dispetto della retorica, perché se si guarda ai documenti ufficiali europei o anche alle varie COP, si parla sempre di neutralità climatica e di “net zero”, non si parla mai di “zero”. Nel maggio del 2021, un mese prima dell’esplosione dei prezzi, che non era certo imprevedibile in quel momento, l’Agenzia Internazionale dell’Energia diceva letteralmente che se si voleva raggiungere il net zero ma in realtà intendeva zero non bisognava più finanziare investimenti nella ricerca di nuovi giacimenti di petrolio e gas salvo poi, letteralmente tre mesi dopo, a settembre 2021 e da quel momento in poi tutte le settimane, chiedere a tutte le imprese e i Paesi produttori di aumentare la produzione, di sforzarsi di produrre di più.

E questo mi porta alla conclusione: come dicono gli anglosassoni “beware what you wish for”. Stiamo attenti a quello che chiediamo perché potrebbe verificarsi.

Da Muoversi, rivista trimestrale, settembre 2022

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