Contro l'antipolitica

Viaggio nella pancia del Leviatano

13 Marzo 2018

Il Foglio

Carlo Stagnaro

Direttore Ricerche e Studi

Argomenti / Teoria e scienze sociali

Viaggio nella pancia del Leviatano. Come esce un liberista dal ministero in cui ha lavorato per 48 mesi: sempre spaventato dallo Stato, ma più rispettoso delle sue strutture

L’edificio nel quale ha sede il ministero dello Sviluppo economico venne realizzato in epoca fascista per ospitare il palazzo delle Corporazioni. Le sue linee austere emanano una sensazione di ordine e disciplina. C’è però un dettaglio, irrilevante ma significativo: lungo il corridoio, sul lato dei numeri dispari, tra la stanza 15 e la 19 non c’è la 17, ma la 15-b. Come se il profilo aguzzo della Ragione dovesse inchinarsi all’arabesco della scaramanzia. Va bene il razionalismo, ma non si sa mai. In questa innocente contraddizione c’è l’ossimoro della nostra aperte virgolette politica industriale chiuse virgolette. Ho passato nel palazzone di marmo di via Veneto 33 i quattro anni da marzo 2014 fino allo scorso febbraio: fui chiamato dal ministro Federica Guidi come capo della sua segreteria tecnica, rimasi per un periodo nello staff del ministro Carlo Calenda e infine col sottosegretario Antonio Gentile. E’ stata un’esperienza lunga, adrenalinica, intensa, resa frustrante dalla fatica delle riforme, ma immensamente ricca e istruttiva. Di questo devo ringraziare lo staff straordinario con cui ho avuto il privilegio di lavorare e le molte persone con le quali ho potuto confrontarmi, dentro e fuori il Mise. Ho vissuto la fase più esaltante e rivoluzionaria del governo Renzi e poi il deserto postreferendario, quando il nostro motto ha smesso di essere “en marche” ed è diventato “resistere resistere resistere”. Prima volevamo cambiare il mondo, poi salvare il salvabile: dalla difesa del Jobs Act alla faticosa approvazione della legge per la concorrenza.

Quattro anni nella pancia del Leviatano, che nella mia vita precedente ho sempre pensato e predicato andasse affamato, sono stati anche una sorta di stress test sulla mia – per mancanza di un termine migliore – ideologia. Sono entrato al ministero da liberista, ma come ne esco? Più liberista, e anche più cinico e disilluso; più spaventato dallo Stato, ma anche più rispettoso delle sue strutture e delle persone che ci lavorano. Sempre per assenza di una parola più adatta, ne esco più “ideologico”. La permanenza all’interno di un ministero – e che ministero! – e la fortuna di seguire da vicino un provvedimento complesso come la legge sulla concorrenza, con gli 894 giorni del suo iter parlamentare e le migliaia e migliaia di emendamenti, conferiscono una visione articolata dell’esigenza di “rolling back the state”. Lasciano insegnamenti profondi che aiutano a rispondere a una domanda cruciale: perché è tanto difficile fare le liberalizzazioni? Più in generale: perché anche le riforme migliori finiscono spesso per tradire i propri obiettivi? Questioni oggi di enorme attualità, se si guardano le macerie politiche emerse dal 4 marzo. La risposta sta in un puzzle che va visto in tutte le sue angolazioni. In questo articolo ne affronto due: l’amministrazione pubblica e la politica. In mezzo stanno le istituzioni, cioè l’insieme di regole formali e informali che sovrintendono al funzionamento della macchina pubblica e delle relazioni tra privati.

Il tema più sfruculiato sulle pagine dei giornali – oddio, oddio: le lobby! – rimane confinato sullo sfondo per una ragione semplice: gli interessi organizzati sono tanto più forti quanto più l’amministrazione è autoreferenziale, le istituzioni disfunzionali e la politica debole. Quindi, la via maestra per ridurre l’influenza delle corporazioni è completare le riforme avviate (in particolar modo quella della PA), irrobustire e contemporaneamente snellire le istituzioni, e ridare forza e autonomia alla politica.

L’amministrazione
Una burocrazia efficiente, dinamica e autenticamente “terza” è un fattore fondamentale per la crescita economica, come spiega bene Jean Tirole in un capitolo di “Economia del bene comune” (Mondadori, pp. 568, euro 21,25). Purtroppo, l’Italia è ben lontana da questo modello: le regole non sempre sono ragionevoli e l’amministrazione non è organizzata in modo efficace. In tutte le indagini internazionali il settore pubblico italiano si colloca agli ultimi posti (si veda, per esempio, “Public Sector Efficiency: An International Comparison” di António Afonso, Ludger Schuknecht e Vito Tanzi). Lo si deve, tra l’altro, alla carenza di skill adeguate e ai conseguenti difetti di organizzazione della macchina pubblica; e anche all’uso inefficiente delle competenze interne, sovente sottovalutate, poco valorizzate o addirittura disconosciute. In parte c’entrano le modalità di selezione del personale e di determinazione degli avanzamenti di carriera e in parte il modo in cui sono concepiti i processi produttivi. Il cambiamento che la tecnologia ha imposto alle imprese è arrivato al settore pubblico in modo attutito: quel complesso ridisegno di funzioni, obiettivi e prodotti che ha letteralmente rivoluzionato il privato ha scalfito solo superficialmente lo Stato.

La demografia del pubblico impiego aiuta a capirne il motivo. I nostri dirigenti pubblici percepiscono stipendi sopra la media Ocse, ma siamo il paese con l’amministrazione più anziana. Gli impiegati con più di 55 anni sono pari al 45 per cento, quasi 20 punti sopra la media, mentre gli under 34 sono appena il 2 per cento, contro una media del 18 per cento.

Il prolungato blocco del turnover si è rivelato tanto efficace nel contenere il monte salari quanto disastroso per la produttività del settore pubblico che, infatti, nel periodo 1995-2016 ha perso lo 0,9 per cento annuo. Proprio per un deficit di innovazione interna, alla voce e-government del Digital Progress Report della Commissione europea, l’Italia arriva in ventunesima posizione su 28.

Per funzionare, la PA – come qualsiasi impresa – ha bisogno di un continuo flusso di nuove idee, nuovi modi di pensare e nuove soluzioni organizzative. Non è (solo) una faccenda di assunzioni. Limitarsi a rimpiazzare i dipendenti pubblici man mano che vanno in pensione non doterebbe l’amministrazione delle competenze indispensabili ad attuare una revisione dei processi.

A tale fisiologico peggioramento si aggiunge un elemento patologico: la sostanziale inamovibilità dei dirigenti apicali. Talvolta essi sono de facto insostituibili, proprio per una questione di competenze. La conoscenza del “deep state”, inteso come insieme di nozioni tecniche e rapporti personali, rappresenta una specie di culto esoterico al quale sono ammessi solo i chierici: gli outsider ne vengono stritolati ed esclusi (Roberto Mania e Marco Panara, “Nomenklatura”, Laterza, pp. 159, euro 12,75). Questo produce una sorta di ossificazione della PA. In un contesto dove la carriera dipende più dall’anzianità di servizio che dal merito e le strutture interne seguono logiche iperverticistiche, a lungo andare le relazioni personali si sovrappongono a quelle professionali in un magma in cui è impossibile distinguere le une dalle altre. Un’amministrazione disabituata al cambiamento, povera di investimenti in capitale fisico e umano, diventa terreno fertile per la cattura e i conflitti di interessi. Non si contano i casi in cui amministrazioni o agenzie pubbliche intervengono a gamba tesa nel processo decisionale, anche facendo lobbying al di fuori dei loro poteri e delle loro competenze per massimizzare status e influenza. Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri (“I signori del tempo perso”, Longanesi, pp. 182, euro 12,75) hanno parlato a tal proposito di “produzione di burocrati a mezzo di burocrati”. Riforme e innovazioni finiscono così digerite e neutralizzate dalla macchina burocratica.

L’autoreferenzialità dell’Amministrazione è ulteriormente amplificata dalla disfunzionalità del disegno istituzionale. La letteratura, fin dai pionieristici lavori di Guido Tabellini e Torsten Persson, ha individuato una serie di caratteristiche tipicamente associate a maggiore disciplina fiscale, apertura alla concorrenza e qualità del settore pubblico: leggi elettorali maggioritarie, presidenzialismo, trasparenza nei processi decisionali. L’Italia, all’opposto, è una “repubblica fondata sull’immobilismo”, come ha scritto Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 16 febbraio 2018). La farraginosità del sistema finisce per accrescere il potere discrezionale delle burocrazie: e questo è tanto più vero – di fatto e per necessità – di fronte a una politica afona non perché non abbia una voce, ma perché troppo spesso non ha nulla da dire.

La politica
La politica italiana è debole – e dunque finisce per far gravare le proprie decisioni sull’amministrazione – perché fatica a interpretare un mondo che cambia.

La crescente distanza tra le opinioni dei cittadini e quelle degli economisti è un fenomeno documentato da Paola Sapienza e Luigi Zingales in un paper del 2013 su “Economie Experts vs Average American”. Elsa Fornero e Anna Lo Prete hanno mostrato che l’ostilità alle riforme è particolarmente elevata nei paesi dove la cultura finanziaria è bassa (il riferimento è al caso pensionistico, ma è generalizzabile). La scarsa comprensione di basilari concetti economici è insomma una delle principali cause della cattiva politica, sia perché non mette i decisori nella condizione di comprendere appieno le conseguenze delle loro azioni, sia perché determina un clima sociale in cui “fare la cosa giusta” è spesso sconveniente e politicamente costoso.

Nell’impossibilità di gestirne la complessità, elettori ed eletti interpretano i fenomeni sociali ed economici attraverso modelli semplicistici, come quello che Sandro Brusco ha chiamato “superfisso”. All’interno di questa cornice concettuale i bisogni, i metodi di produzione e la tecnologia sono fissi. Ai prezzi non viene riconosciuta alcuna funzione allocativa: qualunque intervento redistributivo è dunque possibile senza alterare gli incentivi degli agenti economici e senza determinare conseguenze, né di breve né di lungo termine, al di là di quelle desiderate. E’ uno schema mentale assai intuitivo: peccato che sia anche totalmente sbagliato. Per esempio, nel modello superfisso il reddito di cittadinanza non disincentiva il lavoro, le tasse non scoraggiano la produzione di ricchezza e la bassa qualità della spesa e dei servizi pubblici non ha impatti negativi sulla crescita economica.

Proprio per questi limiti cognitivi, che in qualche misura sono ineliminabili, diventa cruciale il modo in cui i decisori si formano un’opinione sui tanti e diversi temi su cui sono chiamati a esprimersi. Il principale strumento che i parlamentari hanno di acquisire informazioni sono i cicli di audizioni che precedono il dibattito sulle proposte di legge. Tuttavia, le audizioni – per come sono programmate – tendono a sovra-rappresentare gli interessi concentrati: vengono infatti convocati gli stakeholder, ma in concreto vi è ben poco spazio per esperti terzi. Per esempio, nel caso della legge sulla concorrenza, sono stati auditi ben 174 soggetti (la maggior parte dei quali presso la commissione Industria del Senato), ma nessuna figura terza è stata ascoltata al di fuori delle autorità indipendenti. All’interno dei ministeri, l’informazione fluisce dal basso verso l’alto: dalle strutture tecniche al vertice politico. Anche qui c’è raramente spazio per i punti di vista esterni, se non in maniera occasionale e, ancora una volta, perlopiù da parte dei portatori di interessi che, legittimamente, intendono segnalare le proprie esigenze. La lentezza del ricambio interno all’Amministrazione finisce in tal modo per far pesare quello che gli studiosi definiscono “confirmation bias”: la tendenza, cioè, a non deviare dalle convinzioni acquisite. In breve: l’inerzia.

Il fenomeno della economic illiteracy non è certamente nuovo, ma nel passato veniva almeno parzialmente tamponato grazie a una forza che oggi sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva: l’ideologia, ossia una visione coerente del mondo e della società. Si dice spesso che, nell’interpretare i fatti, non bisogna essere ideologici, et pour cause: chi fa ricerca scientifica, e anche chi fa policy, deve necessariamente tener conto delle evidenze, se non altro per evitare di fare disastri. Sovente, politiche inefficaci o controproducenti nascono proprio dall’aver rinunciato a raccogliere o aver ignorato i dati. Tuttavia i dati da soli, senza una teoria che aiuti a interpretarli, sono muti.

In ogni caso, questa “rule of thumb” deve fare i conti con due vincoli. Primo: le scelte politiche, pur avendo una dimensione tecnica incomprimibile, sono e restano politiche e come tali si inseriscono in un sistema di valori e rispondono a una gerarchia di obiettivi. Per esempio: è più importante ridurre le disuguaglianze o la povertà? dare servizi migliori ai cittadini o garantire un tenore di vita più elevato ai dipendenti pubblici e parapubblici? promuovere l’innovazione a scapito dello status quo o difendere lo status quo a scapito dell’innovazione? proteggere i lavoratori e la concorrenza, oppure i posti di lavoro e le imprese moribonde? Un economista può dire che dalla tale azione (per esempio, la spending review) segue la tal’altra conseguenza (la possibilità di tagliare le tasse). Se però questa conseguenza sia desiderabile, o se i costi che comporta (i contraccolpi sui beneficiari delle spese tagliate) siano accettabili, implica un giudizio politico, non tecnico.

Secondo vincolo: gli elettori sono “razionalmente ignoranti”, cioè per loro il costo di raccogliere le informazioni per assumere una decisione consapevole è superiore al potenziale beneficio, in quanto la probabilità che un singolo voto cambi il risultato delle elezioni è bassissima. Finiscono così per scegliere sulla base di suggestioni o preferenze generali più che di una valutazione ponderata (con alcune eccezioni: per esempio i membri di una corporazione che votano per un candidato o un partito in cambio dell’impegno credibile a tutelarne gli interessi).

L’ideologia rappresenta una “scorciatoia” per comprendere cosa faranno – e soprattutto cosa non faranno – le diverse forze politiche. Il voto ideologico di parte degli elettori, e conseguentemente il comportamento ideologico degli eletti, può essere efficiente nella misura in cui produce prevedibilità ex ante e verificabilità ex post, contribuendo a colmare il gap tra l’ignoranza razionale dei cittadini e i poteri e le responsabilità degli eletti. William Dougan e Michael Munger hanno dimostrato che “l’ideologia può giocare un ruolo nel mitigare le conseguenze avverse dell’ignoranza razionale sulla condotta dei legislatori… l’evidenza di continui problemi di agenzia va cercata nell’enorme influenza dei gruppi di interesse sui legislatori, non nell’apparente importanza dell’ideologia in politica”. L’ideologia può anzi essere un antidoto alle lobby.

Se questo è vero, e in qualche modo l’evidenza aneddotica raccolta per quattro anni in quello che fu il ministero delle Corporazioni lo conferma, allora una delle cause della debolezza della politica – e della conseguente autoreferenzialità dell’amministrazione – sta proprio nell’eclissi dell’ideologia. Non è rimpianto per don Camillo e Peppone: si tratta, piuttosto, della constatazione che al crollo dei vecchi sistemi di valori non ha fatto seguito un nuovo ciclo politico basato su visioni nuove e alternative. O, quanto meno, ciò è accaduto solo in parte, tant’è che le linee di frattura appaiono trasversali ai partiti e agli schieramenti.

Negli ultimi trent’anni, la sinistra ha provato a evolversi, ma è rimasta a metà del guado. Il tentativo di rinascere come forza pragmatica le ha fatto perdere la capacità di declinare un’idea originale di progresso, e per contrappasso si è cronicizzata una specie di sindrome di inferiorità verso la sinistra più a sinistra (con tanti saluti a Tony Blair e Bill Clinton). La destra ha scelto di coltivare l’orto della paura, alimentando la domanda comunitaria di protezione a scapito dell’ambizione individuale di conquistare e costruire il futuro (bye bye Margaret Thatcher e Ronald Reagan). L’una e l’altra non sono più quello che erano, ma ancora non hanno deciso cosa saranno.

Gli elettori fiutano questa indefinitezza e diffidano dell’offerta politica tradizionale, con due importanti conseguenze. Sul piano dei comportamenti, la funzione obiettivo dei politici rimane quella di perseguire la rielezione: se non hanno modo di conquistare il consenso facendo forza sui valori, finiranno o per intrecciare rapporti più stretti con gli interessi organizzati, facendosene agenti, oppure per rivolgersi alla pancia dell’elettorato. Sul terreno del posizionamento, le forze politiche non sono più tenute assieme da una comunanza di valori, ma da una mera e sempre più scialba eredità storica. Fatalmente, si dividono internamente e non riescono a esprimersi. Le contraddizioni dentro partiti e coalizioni sono massime sui grandi temi, come la scelta tra le ragioni dell’apertura e del progresso e quelle della chiusura e del sovranismo; oppure lo scontro tra i valori del dinamismo moderno e quelli del corporativismo pre-moderno, alla cui revanche il premio Nobel per l’economia Edmund Phelps ha attribuito addirittura il calo del tasso di crescita della produttività (Il Foglio, 20 gennaio 2018). L’appartenenza a un partito non dice quasi nulla su quello che realmente pensi. Coerentemente, come abbiamo visto la settimana scorsa, il voto punisce le formazioni tradizionali preferendo la protesta antisistema: i cori da stadio possono essere uno strumento rozzo per esprimere posizioni politiche, ma hanno il pregio di essere più chiari del silenzio imbarazzato o dei balbettii difensivi. Come ha scritto Antonio Funiciello, il populismo “riemerge ogni qual volta vacillano ipotesi di comprensione del mondo e il disagio materiale resta più drammaticamente senza risposta” (Il Foglio, 12 ottobre 2017).

L’assenza di una bussola ideologica per gli elettori si traduce nella piena libertà degli eletti, una volta messo piede nella stanza dei bottoni, di orientare i propri comportamenti senza riguardo per l’interesse generale, e nella stessa difficoltà di mettere a fuoco in cosa esso possa consistere. E’ questa combinazione tra discrezionalità e inadeguatezza alla complessità che finisce per far cascare gli eletti nelle mani dell’amministrazione, a cui spetta l’onere di garantire continuità e concreta attuazione delle policy. La più nota frase di John Maynard Keynes – “gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto”- non potrebbe essere citata più a proposito. Spiega infatti che i politici credendo nel modello superfisso sono inconsapevoli eredi di Piero Sraffa. Mentre la burocrazia, per anagrafe, formazione prevalentemente giuridica e prassi consolidata suona uno spartito keynesiano che gli economisti hanno abbandonato negli anni Settanta.

Ecco allora perché le istituzioni italiane hanno l’aspetto di una black box da cui, qualunque sia l’input, esce una qualche variazione sul tema sempreverde dell’interventismo. Ecco spiegato anche perché le sirene della “politica industriale” continuano a cantare e a sedurre, a dispetto di un secolo di ininterrotti fallimenti (documentati, nel caso italiano, da Franco Debenedetti, “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, Marsilio, pp. 336, euro 15,30). Semplicemente, una politica senza idee si rivolge a un’amministrazione abituata a rispondere “si è sempre fatto così” perché nessuno le ha mai realmente chiesto di comportarsi altrimenti (con le dovute eccezioni, beninteso).

Lo psicologo americano Abraham Maslow propone un’espressione efficace per tale atteggiamento: se tutto quello che hai è un martello, ogni cosa ti sembra un chiodo. La forza d’inerzia dell’amministrazione è complementare alla malattia professionale della politica, cioè il dirigismo economico. Il martello della burocrazia colpisce il chiodo dell’economia in modo non troppo dissimile da come si faceva ai tempi delle partecipazioni statali: magari modificando le forme dell’intervento per renderle superficialmente compatibili con le regole europee, ma mantenendo fermi obiettivi e mezzi. Purtroppo, nel frattempo il mondo è cambiato. L’Italia non è più un mercato nazionale, è immersa nell’Europa e nel mondo: se non ne tiene conto, paga un prezzo. Il futuro, la tecnologia e l’universo non possono essere resi sempre, comunque e senza costi conformi al comma n-bis del decreto-legge x convertito con legge y e successive modificazioni e integrazioni. La “nuova politica industriale”, esattamente come la vecchia, non produce crescita ma cattiva allocazione dei fattori e, in ultima analisi, distruzione di valore attuale e potenziale. I risultati stanno tutti nelle desolanti statistiche sulla produttività. Di questo ha serie responsabilità l’Amministrazione, ma le ha ancor più gravi la politica per aver perso senso dell’orientamento e capacità d’indirizzo.

Cosa che ci porta all’ultimo punto: la leadership. Le idee non vivono di vita propria: camminano sulle gambe delle persone. Senza figure credibili e nell’assenza di un chiaro mandato elettorale, difficilmente la politica riuscirà a imporsi su una burocrazia che tra i tanti suoi pregi non ha certo quello della flessibilità. Negli anni, ripetuti tentativi di riforma del settore pubblico si sono fermati al livello dei proclami o sono stati pesantemente annacquati. Addirittura, molte leggi dello Stato finiscono nel dimenticatoio a causa di scelte attuative frettolose, forzate o lacunose per non dire dei frequenti insabbiamenti. Quanto più un paese ha bisogno di cambiamento, tanto più la politica è chiamata a forzare l’opinione pubblica e l’Amministrazione: a guidare, non a seguire; a offrire un dibattito e una visione coerenti, non a compulsare i sondaggi di opinione o le richieste delle lobby. In breve, non può esserci riforma senza leadership, ma non può esserci leadership senza un collante intellettuale che la tenga insieme.

Conclusioni
Per mettere assieme i pezzi di un’esperienza, bisogna risalire a ritroso la corrente argomentativa seguita finora: una politica debole – incapace di articolare ciò che siamo, ciò che vogliamo – immersa in un ambiente istituzionale inefficiente, inevitabilmente scarica ogni responsabilità sull’amministrazione. Per cultura, anagrafe, tentazione e consuetudine la burocrazia non fa altro che replicare gli approcci, gli obiettivi e gli strumenti già sperimentati nel passato. Questa impasse si traduce nella progressiva perdita di quella che Phelps chiama l’innovazione indigena, e spiega sia il declino economico italiano, sia il dilagare politico dei populismi.

Senza una decisa correzione di rotta, l’Italia alternerà periodi di feroce contrazione economica ad altri di moderata crescita, ma i divari interni al nostro paese e rispetto all’Europa continueranno ad allargarsi. E’ significativo che le riforme degli ultimi anni abbiano contribuito a ridurre la velocità con cui la faglia si estende, ma non abbiano invertito la deriva. Per cambiare, il nostro paese deve ritrovare il gusto (anziché la paura) del futuro, tornando a riconoscersi nei valori della modernità. Una robusta leadership politica è condizione necessaria ma non sufficiente. Serve anzitutto restituire al dibattito politico una visione, una prospettiva, un orientamento. In una parola, controversa quanto si vuole, un’ideologia o, meglio, un confronto basato anche su differenti prospettive ideologiche.

La ricomposizione del quadro politico è tanto necessaria quanto impossibile senza prima ridefinire un sistema di coordinate intellettuali e valoriali, all’interno del quale ragionare secondo il discrimine tra apertura o chiusura, innovazione o status quo, scoperta o conservazione. Se si mettono a fuoco i problemi, usando le lenti sfaccettate della contemporaneità, diventa evidente che l’Italia ha un drammatico bisogno di uno Stato meno presente e più efficiente, un’amministrazione meno autoreferenziale e una politica più forte. Solo riforme orientate a una maggiore libertà economica possono generare crescita ed equità, opportunità e mobilità sociale. Robert Heinlein una volta disse: “Non preoccuparti della teoria finché la macchina funziona”. La macchina non funziona: è il momento di tornare alla teoria. Chiamatelo liberismo ideologico, se vi pare.

da Il Foglio, 12 marzo 2018

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