30 Marzo 2017
Il Sole 24 Ore
Franco Debenedetti
Presidente, Fondazione IBL
Argomenti / Teoria e scienze sociali
Il populismo, afferma in un suo paper la Bridgewater, il più grande hedge fund del mondo con oltre 100 miliardi di dollari gestiti, è diventato un rischio politico a livello mondiale: ormai ha il consenso del 35% degli elettori delle nazioni sviluppate, un livello che non si vedeva dagli anni 30. Ma non tutti i populismi sono uguali: c’è quello di Hitler e Mussolini, e quello di Franklin D. Roosevelt che entrambi combatté e sconfisse. Il futuro della Dichiarazione di Roma dipende in modo cruciale del risultato che otterranno i partiti antieuropei nelle elezioni politiche dei prossimi mesi. Ma non tutti gli antieuropeismi sono uguali.
I seguaci di Beppe Grillo sicuramente sono populisti, secondo i criteri della Bridgewater; sono anche antieuropei, anche se pronti a tacersi per un piatto di lenticchie alla mensa dell’Europarlamento. Ma è per ragioni identitarie che essi costituiscono il principale nostro problema politico: e mentre le posizioni politiche possono anche cambiare, le identità hanno permanenza nel tempo. Identitario è il non-statuto che si sono dati, e la non-democrazia interna che ne deriva: per votare, la piattaforma Rousseau, proprietà di e gestita da una società privata, la Casaleggio Associati; per decidere, un autonominatosi “garante” che “giudica e manda secondo ch’avvolge”. Con annesso vincolo di mandato per gli eletti, e sanzioni pecuniarie per chi non si conforma alle decisioni del capo. Identitario il rifiuto di ogni sapere, filosofico, tecnico, scientifico, perché su quello si baserebbe il potere delle élite. E quindi la negazione di ogni “verità”, e non certo nel senso popperiano della sua falsificabilità: per cui tutto può andar bene, le scie chimiche, il finto allunaggio della Nasa, i vaccini e l’autismo, ma anche il modo di gestire una città o una municipalizzata. Identitario il governo degli onesti. Sembra scritta per loro la famosa frase di Benedetto Croce secondo cui questo è «l’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma nelle non cantate prose delle loro invettive e declamazioni e utopie». Impedirne la resistibile ascesa è la prima urgenza politica. La legge elettorale dovrà evitare di spianargli la strada con premi di maggioranza, dovrà invece sfidarli a misurarsi con gli avversari collegio per collegio, cioè proprio nel momento della formazione del consenso. Ma non basta. Da qui alle elezioni ci vuole un impegno politico, pesante e pressante, a tallonarli in ogni occasione, a segnalare ogni errore, a dimostrare ogni incongruenza. Senza demonizzarli, ma senza cercare alleanze, senza proporre compromessi, senza farsi illusioni di batterli sul loro piano.
Il candidato naturale a farlo sarebbe il centro destra: ma la destra italiana ha problemi suoi, di dimensione, di struttura interna, di alleanze.
Il Pd, secondo partito in Italia dopo M5S, è la sola forza politica in grado di reggere un progetto del genere. Sarebbe anche nel suo interesse. Tanto per cominciare: che gli scissionisti si siano proposti per un’interlocuzione con il M5S, offre al Pd un’occasione per marcare la propria identità senza nulla perdere come consenso. Certo che il populismo della sinistra presenta molti punti di affinità con il populismo grillino. Il deficit spending a sostegno del welfare, sostenuto dalla sinistra radicaleggiante, non è tanto diverso dal reddito di cittadinanza finanziato non si sa come, gran cavallo di battaglia dei grillini. L’insuccesso di Renzi nell’ottenere maggiore “flessibilità” (maggiore rispetto ai 19 mld € già concessi) è per il M5S la dimostrazione che dalla casa europea non si otterrà nulla e che quindi non resta che uscirne. Parte del Pd è contraria alle privatizzazioni delle municipalizzate e alla liberalizzazione del trasporto urbano, è favorevole ad abolire i voucher, e magari ha votato per l’acqua bene comune. Ma proprio qui sta il vantaggio per il Pd: distanziarsi e differenziarsi dal M5S, serve a evitare i cedimenti più vistosi, a fondare diversamente le proprie richieste, a dimostrare di essere i soli capaci di volgere a vantaggio dell’Italia le aperture che la Dichiarazione di Roma lascia intravedere.
Il centro sinistra ha governato, conosce i vincoli di governo. È stato protagonista di un gigantesco programma di privatizzazioni. Ha, seppur faticosamente, riformato la disciplina lavoristica, da Treu al Jobs Act. Ha portato l’Italia nell’euro. Il compito di usare il tempo che resta prima delle elezioni per fare argine al M5S non è certamente fuori della sua storia; è, a ben vedere, nel suo interesse. E, con un po’ di ottimismo, non è neppure fuori dalla sua portata.
Da Il Sole 24 Ore, 30 marzo 2017